Ci sono almeno due buoni motivi per cui recarsi a Gubbio una volta nella vita.

Il primo è che gli abitanti di Gubbio si chiamano eugubini che, ne converrete, è un nome bellissimo.

Il secondo è che Gubbio è stata teatro di una delle scoperte dell’ultimo secolo che più hanno colpito l’immaginario di grandi e piccini.

Verso la fine degli anni Settanta, Walter Alvarez – un giovane geologo statunitense della Columbia University – stava conducendo alcune ricerche a due passi dalla nostra Gubbio, in una pittoresca valle appenninica chiamata Gola del Bottaccione. La sua attenzione fu catturata da una banda argillosa di pochi millimetri: questa divideva due strati calcarei, uno risalente al Cretaceo, l’altro al Terziario, che contenevano fossili con caratteristiche completamente diverse le une dalle altre. Si tratta di una banda nota ai geologi come limite K-T e risale a circa 66 milioni di anni fa, quando si verificò una delle più grandi estinzioni di massa nella storia del nostro pianeta, durante la quale scomparvero, tra gli altri, tutti i dinosauri non aviani, cioè tutti i dinosauri esclusi gli uccelli, dal momento che pare ormai acclarato che la classe degli uccelli sia evolutivamente riconducibile a un ramo dei dinosauri teropodi. Pensateci, la prossima volta che guardate un’anatra.

La Gola del Bottaccione. Voi ci vedete delle rocce, loro ci hanno visto l’estinzione dei dinosauri. (Fonte)

La Gola del Bottaccione. Voi ci vedete delle rocce, loro ci hanno visto l’estinzione dei dinosauri. (Fonte)

Walter Alvarez aveva la fortuna di conoscere una persona che avrebbe potuto aiutarlo a capire se in quella striscia argillosa si celasse qualcosa in grado di far luce sulla vicenda: suo padre Luis Alvarez, eminente premio Nobel per la fisica del quale ci siamo già occupati in un episodio del podcast.

Armati dei loro campioni di roccia, gli Alvarez si recarono in California da Frank Asaro ed Helen Michel, due chimici che avevano messo a punto una tecnica chiamata analisi per attivazione neutronica, in grado di misurare con estrema precisione la composizione chimica dell’argilla. I risultati furono completamente inaspettati.

Il Dino-team. Da sinistra a destra: Helen Michel, Frank Asaro, Walter Alvarez, Luis Alvarez. (Fonte: Berkeley Lab.)

Il Dino-team. Da sinistra a destra: Helen Michel, Frank Asaro, Walter Alvarez, Luis Alvarez. (Fonte: Berkeley Lab.)

27 dei 28 elementi presi in considerazione non riservarono sorprese, mentre la concentrazione di iridio in corrispondenza del limite K-T superava di oltre 30 volte i livelli attesi. Le analisi vennero ripetute anche in rocce provenienti da Danimarca, Spagna, Francia, Nuova Zelanda e Antartide e ovunque furono riscontrate quantità di iridio superiori alla norma, anche di centinaia di volte.

L’iridio è un metallo estremamente raro sulla crosta terrestre, ma abbonda su meteoriti e comete. Dopo lunghe riflessioni, gli Alvarez formularono la teoria che tutti conosciamo: “un asteroide colpì la Terra formando un cratere nell’impatto, parte del materiale fu espulso dal cratere sotto forma di polveri, raggiunse la stratosfera e si diffuse attorno al globo”, si legge nel loro articolo pubblicato su Science nel 1980. “Questa polvere impedì alla luce solare di raggiungere la superficie per diversi anni, finché non si depositò al suolo. La carenza di luce solare ostacolò la fotosintesi, e gran parte della catena alimentare collassò di conseguenza, provocando le estinzioni.”

La pubblicazione di quel lavoro scatenò un putiferio nel mondo della paleontologia, che fu restio ad accettare l’idea del meteorite. Di certo l’atteggiamento di Luis Alvarez non aiutava a distendere gli animi: “Non mi piace dire cose brutte dei paleontologi, ma davvero non sono buoni scienziati. Più che altro sono collezionisti di francobolli”, dichiarò con fare non propriamente diplomatico in un articolo del New York Times.

Dieci anni più tardi, la svolta. Nel 1990, un altro giovane geologo, Alan Hildebrand, si recò sulla penisola messicana dello Yucatán, nei pressi di Chicxulub, dove si trovava (e si trova tuttora) un cratere del diametro di 180 km, convinto che potesse trattarsi del sito d’impatto del meteorite degli Alvarez.

Le rocce analizzate mostravano chiari segni di shock termico e pressorio, compatibile con l’impatto di un bolide del diametro di 10 km, grande quanto la città di Parigi. Le ricerche suggeriscono che il cratere possa risalire a circa 66 milioni di anni fa.

Era la prova che mancava agli Alvarez.

La teoria del meteorite che causa l’estinzione dei dinosauri è divenuta una sorta di icona pop della scienza e appartiene al bagaglio culturale di qualunque bambino di otto anni. Peccato che non abbiamo la certezza che sia esatta.

L’ipotesi attualmente più accreditata imputa la causa delle estinzioni a uno straordinario fenomeno vulcanico durato centinaia di migliaia di anni, che ha portato alla nascita dei Trappi del Deccan, una regione dell’India Occidentale formata da altipiani costituiti da immense quantità di colate di basalto solidificato.

La teoria dei Trappi del Deccan non è certo l’ultima arrivata: benché goda di meno appeal mediatico, vanta da decenni schiere di prestigiosi e accreditati sostenitori e potrebbe spiegare sia l’anomalia dell’iridio (che abbonda nel mantello terrestre), sia la crisi biotica generata dalle enormi quantità di polveri e gas venefici rilasciati in atmosfera.

I Trappi del Deccan sono fatti così. (Fonte: wikimedia.)

I Trappi del Deccan sono fatti così. (Fonte: wikimedia.)

Dunque, meteorite o vulcani?

La verità, come spesso accade, probabilmente sta nel mezzo.

In un recente studio pubblicato su Science, un gruppo di ricercatori guidati da Paul Renne, direttore del Berkeley Geochronology Center, ipotizza che i due fenomeni potrebbero essere in qualche modo correlati. Analizzando le rocce dei Trappi del Deccan, Renne è giunto alla conclusione che quando è avvenuto l’impatto del meteorite, le eruzioni fossero già in corso, ma i vulcani stavano “gorgogliando felici, ininterrotti e con relativa lentezza”. Appena 50.000 anni più tardi, l’equivalente geologico di un battito di ciglia, si aprì una seconda, più catastrofica fase e il tasso medio di lava eruttata raddoppiò. Risulterebbe artificioso e forzato associare le estinzioni al meteorite piuttosto che al vulcanismo: “entrambi i fenomeni erano chiaramente in azione contemporaneamente”, sintetizza Renne.

Anche Walter Alvarez ha ammesso che le eruzioni del Deccan hanno avuto un ruolo chiave nelle estinzioni K-T e in uno studio condotto insieme allo stesso Renne ha indicato un possibile legame tra i due eventi: i terremoti. L’impatto di Chicxulub potrebbe aver generato un’immane densità di energia sismica, sufficiente a innescare eruzioni vulcaniche in tutto il mondo.

Quindi sì, cari amici. Forse vale la pena di andare a Gubbio a vedere delle rocce piene di iridio.

Ma dovrete spezzare il cuore al bambino di otto anni (che è in voi) raccontandogli che il meteorite non è che una parte della storia.

Com’è dura la scienza, alle volte.