Il 15 marzo è la giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DAN), conosciuti anche come disturbi del comportamento alimentare (DCA). Il giorno è stato scelto in memoria di una vittima di un disturbo alimentare che aveva chiesto aiuto, ma è morta nell’attesa che si liberasse un posto in uno dei troppo pochi centri specializzati presenti nel nostro Paese, nel quale i disturbi alimentari rappresentano la seconda causa di morte per gli adolescenti dopo gli incidenti stradali. Secondo gli specialisti, in realtà, queste morti non sono dovute propriamente ai disturbi alimentari, che oggi possono essere curati con ampie possibilità di successo, ma alla scarsa accessibilità e tempestività delle cure, collegata anche a una distribuzione non omogenea delle strutture specializzate nel territorio nazionale. Anche nelle zone in cui sono presenti i centri per la cura della fase acuta della malattia, mancano spesso le strutture ambulatoriali e i presidi di diverso tipo per la gestione del recupero, con la conseguenza di determinare ricadute che si potrebbero evitare con il supporto adatto. Un importante passo avanti nel riconoscimento del diritto alla cura di queste vere e proprie malattie (diversi esperti sarebbero dell’avviso di abbandonare, in quanto fuorviante, il termine “disturbo”) è stato compiuto lo scorso dicembre, quando il Senato ha approvato l’emendamento che inserisce i disturbi alimentari nei Livelli Essenziali di Assistenza, in un’apposita sezione, separata da quella relativa alla salute mentale, contribuendo a dare rilievo a un problema grave e diffuso.

Il tema dell’origine dei disturbi alimentari e della loro terapia (che esige la presenza di personale specializzato organizzato in un’équipe multidisciplinare) è importante e cruciale, ma è fondamentale soffermarsi anche su un altro aspetto. Chiunque abbia sofferto di un disturbo alimentare (chi scrive è tra queste persone) sa che chi affronta questo problema soffre sia per il disturbo in sé sia per le conseguenze degli stereotipi e dello stigma che gravitano intorno al problema, ne creano il terreno di coltura favorendone l’esordio e rappresentano un ostacolo concreto per chi cerca di uscirne. Si tratta di una situazione comune a molti altri problemi di salute mentale, al superamento della quale ciascuno può offrire un importante contributo. Come molti problemi che riguardano la salute psicofisica, i disturbi alimentari hanno una forte componente sociale e relazionale. Il peso degli sguardi, delle parole, del giudizio sociale può essere distruttivo e, per contro, ribaltare stereotipi e opporsi allo stigma può offrire un supporto importante.

Spesso si banalizza il discorso delle cause di un disturbo alimentare, riconducendo tutto a modelli estetici, influenza del contesto, media, social network, relazioni familiari o altro. Il discorso è molto più complesso e comprende fattori genetici, epigenetici, psicologici, familiari, relazionali, culturali e sociali, la cui interazione può determinare l’insorgenza del problema, anche se nessun elemento è sufficiente da solo. Anche per questa ragione la colpevolizzazione, comune in passato, della famiglia dei ragazzi che soffrono di disturbi alimentari è senz’altro ingiusta e crudele. Dietro il disturbo del singolo si nasconde una storia personale alla quale i differenti fattori contribuiscono in proporzioni diverse, ma esistono certamente alcune dinamiche sociali e relazionali che possono fare da innesco o riacutizzare processi che la persona sta cercando di superare, rappresentando frustranti passi indietro. Capita di commettere errori anche quando si hanno le migliori intenzioni, perché le parole e le azioni hanno un peso anche quando ci si proponeva un obiettivo diverso.

Per esempio, la nostra società è permeata di una strutturale e capillare grassofobia. Con questo neologismo (calco dall’inglese fat phobia, che rientra nel concetto di fat shaming) si descrive l’atteggiamento di profondo disprezzo e discriminazione di cui sono oggetto le persone grasse, al punto che anche l’aggettivo “grasso” sembra assumere in sé connotazioni non semplicemente descrittive, come dovrebbe essere, ma ingiuriose. Gli studi mostrano come alle persone in sovrappeso o in condizione di obesità vengano sovente associati giudizi morali negativi e come si attribuiscano loro a priori caratteristiche come pigrizia, trascuratezza o altro. Vengono, inoltre, spesso fatte oggetto di commenti discriminatori, oggettivanti e ingiuriosi, travestiti, in forma passivo-aggressiva, da preoccupate raccomandazioni per la salute, anche da parte di sconosciuti, nel mondo reale e virtuale. La discriminazione spesso proviene anche da figure preposte a dare aiuto, come insegnanti, medici, nutrizionisti, istruttori di sport, su vari livelli, ampiamente messi in luce dagli studi. Nei media la rappresentazione delle persone grasse è spesso stereotipata, macchiettistica, offensiva, ridicola. Nei prodotti di intrattenimento, come film e serie televisive, i personaggi sovrappeso o obesi vengono frequentemente rappresentati secondo stereotipi che rimandano a caratteristiche negative come trascuratezza, pigrizia, ingordigia, crudeltà, o, nel migliore dei casi, rientrano nella visione asfittica e limitante della persona grassa goffa, buffa e simpatica, con un ruolo subalterno rispetto al protagonista, che è vincente, attivo e, naturalmente, con un corpo conforme agli standard sociali di bellezza.

Concetti come “prova costume” o “remise en forme” o, in generale, l’importanza che viene data, anche nelle espressioni di uso comune, all’aderenza del corpo a un canone estetico astratto sono ancora molto presenti e tendono a sommarsi e ad amplificare gli effetti di altre forme di discriminazione, come quelle legate al razzismo, al sessismo e all’abilismo. La pressione esercitata da una società grassofobica su chi soffre – o ha la tendenza a soffrire – di disturbi alimentari può essere enorme, perché mantiene vivo il legame tra aspetto del corpo e valore percepito, che amplifica i meccanismi ossessivi alla base di molti di questi problemi. Per una sintesi aggiornata dell’evidenza scientifica in merito al legame tra stigma legato al peso corporeo e disturbi alimentari si può leggere il saggio Obesità e stigma (Positive Press, 2021), dello psicologo e psicoterapeuta Daniele Di Pauli, che si occupa da molto tempo di questo argomento.

Da questo punto di vista, ciascuno di noi può fare la propria parte, nel ruolo sociale che riveste e nella vita di tutti i giorni, per contribuire al superamento di stereotipi che possono fare molto male. Soprattutto (è bene sottolinearlo con decisione), stigma e giudizio sociale non hanno mai effetti positivi, né sul mantenimento della salute psicofisica, né, tanto meno, sullo stabilirsi di un rapporto sereno e sano con l’alimentazione. Alla base di tutto deve rimanere un importante principio, cioè il fatto che tutte le persone meritano rispetto e considerazione, indipendentemente da tutto e, quindi, anche dal loro comportamento alimentare o dal loro aspetto corporeo. Si tratta di un concetto di una sconcertante banalità, eppure l’esperienza di tutti i giorni insegna che così non è. Accade addirittura che, in un mondo in cui la vita di molti passa attraverso i social, il fatto che una persona grassa pubblichi una propria foto in costume da bagno (un gesto che è compiuto da tantissime persone ogni giorno nel mondo, senza suscitare scalpore) venga stigmatizzato come “promozione dell’obesità” o lodato come “manifestazione di coraggio”.

Un altro nemico delle persone con disturbi alimentari è la mancanza di informazione, che rende difficile cogliere i primi segnali delle manifestazioni del problema, con la conseguenza di attivarsi in ritardo per dare supporto. Per esempio, in tanti collegano i disturbi alimentari solo alle manifestazioni dell’anoressia nervosa, ignorando quelle di altri problemi, come la bulimia nervosa, il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder), i problemi legati alla paura nei riguardi di specifiche categorie di cibi che caratterizzano, per esempio, il disturbo evitante-restrittivo (o ARFID, acronimo per Avoidant/Restrictive Food Intake Disorder), l’ortoressia, cioè l’ossessione di limitare la propria alimentazione ai cibi che si ritengono salutari (spesso accompagnata dalla vigoressia, cioè l’attenzione patologica alla forma fisica, ai muscoli, all’allenamento) etc. Recenti notizie mostrano, per esempio, che proprio il binomio ortoressia-vigoressia, rinforzato da una modificazione dei canoni estetici che viaggiano sui social, è in aumento nella popolazione adolescente, anche nel nostro Paese.

Per alcune indicazioni di massima sui disturbi alimentari è possibile consultare l’apposita sezione sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, nella quale si trova, accanto a del materiale informativo, anche la mappa dei centri presenti nel territorio nazionale, oppure altre risorse online come quelle che fanno capo alle associazioni “Mi nutro di vita” e SIRIDAP che sono tra i promotori della giornata del Fiocchetto Lilla.