Correva l’anno 1967 quando l’allora giovane dottoranda Jocelyn Bell scoprì nei dati del Mullard Radio Astronomy Observatory un segnale strano e del tutto inatteso, che si ripeteva a intervalli regolari di 1,33 secondi. La sorgente venne soprannominata all’inizio LGM-1, acronimo di Little Green Men (Piccoli Uomini Verdi), per scherzare sulla possibilità che fosse un segnale trasmesso da una qualche civiltà aliena tecnologicamente avanzata. La scoperta successiva di una seconda sorgente periodica e regolare ma in una zona opposta della sfera celeste, fece cadere immediatamente questa ipotesi: si comprese, infatti, che l’origine del fenomeno era sì “extraterrestre” ma prodotto da un tipo particolare di stella, chiamata da allora in poi pulsar, contrazione di pulsating star, stella pulsante.

Una pulsar è una stella di neutroni in rotazione, che emette radiazione dai suoi poli magnetici. Quando durante una rotazione la radiazione punta nella nostra direzione, dà origine a un segnale breve e intenso che si ripete periodicamente, detto emissione “pulsata”: in pratica, è un analogo cosmico del faro. Inoltre, è stato misurato che la velocità di rotazione delle pulsar rallenta al trascorrere del tempo. I pulsatori più stabili sono le cosiddette pulsar a millisecondo, trottole spaziali velocissime, che, nomen omen, compiono un giro ogni millisecondo. Si tratta di pulsazioni così regolari che questi oggetti vengono ritenuti dei veri e propri orologi cosmici.

Nei 50 anni successi alla scoperta, gli scienziati, però, non solo hanno potuto confermare diverse assunzioni sulle sorgenti di tipo pulsar, ma, grazie a esse, è stato possibile verificare anche diversi aspetti della Teoria della Relatività Generale di Einstein: a titolo di esempio, Russel A. Hulse e Joseph H. Taylor vinsero il premio Nobel nel 1993 per aver scoperto una pulsar in un sistema binario e averla utilizzata per provare indirettamente l’esistenza delle onde gravitazionali.

La NASA ha recentemente dimostrato che le pulsar non sono solo una miniera di scoperte scientifiche particolarmente interessanti, ma possono in linea di principio essere utilizzate dalle sonde spaziali per navigare nello spazio interplanetario. La NASA è riuscita, infatti, nel completare con successo le prime misure con l’esperimento SEXTANT, che fa parte della missione NICER per lo studio delle stelle di neutroni, della quale vi avevamo parlato qui e qui.

Ci vorranno ancora diversi anni prima che la tecnologia trovi reale applicazione nelle sonde spaziali, ma è già un notevole risultato l’aver verificato la fattibilità di questa nuova tecnica di navigazione spaziale che si chiama XNAV – X-ray Navigation – e sfrutta le pulsar in raggi X.

La nuova tecnica permetterebbe, infatti, a una missione interplanetaria di poter calcolare in maniera autonoma la propria posizione nello spazio e di correggere eventualmente da sola la propria rotta, senza bisogno di dover comunicare con la Terra: ciò rivoluzionerebbe il futuro dell’esplorazione spaziale dentro e oltre i confini del sistema solare. Attualmente la NASA osserva e comunica con le sue sonde grazie al DSN (Deep Space Network), il sistema di telecomunicazioni più sensibile al mondo, che però ha delle limitazioni importanti, in quanto si tratta di un sistema Terra-centrico, come l’universo tolemaico o il GPS, e questo fa sì che le soluzioni di navigazione proposte dal DSN diventino sempre meno precise man mano che ci si allontana verso i confini del sistema solare. Al contrario le pulsar sono facilmente accessibili da una missione spaziale, sia che essa si trovi in orbita intorno alla terra che in viaggio verso Plutone e oltre.

In solo due giorni di presa dati, l’esperimento SEXTANT ha utilizzato i segnali di 4 pulsar a millisecondo per calcolare in maniera autonoma la propria posizione nello spazio. Il risultato è stato poi confrontato con la misura data dal ricevitore GPS montato sulla missione NICER.

Già nelle prime 8 ore di presa dati, l’obiettivo prefissato dalla NASA era stato raggiunto: il sistema era in grado di posizionare autonomamente NICER sulla Stazione Spaziale Internazionale con un errore inferiore ai 16 Km, soglia che era stata stabilita per decretare il successo della dimostrazione tecnologica. Parte dei dati, inoltre, hanno fornito posizioni precise con uno scarto inferiore ai 5 km.

Questi numeri ci potrebbero sembrare un po’ troppo grandi, visto che siamo abituati al GPS, che fornisce la nostra posizione sulla Terra entro i 10 metri, ma un’accuratezza simile diventa del tutto superflua nel caso di una missione interplanetaria che stia viaggiando ai confini del sistema solare: essendo i corpi celesti separati da milioni di chilometri, è sufficiente, in pratica, che la sonda stabilisca la sua posizione con un’accuratezza dell’ordine del centinaio di metri,  obiettivo che la navigazione con le pulsar si prefigge di raggiungere nei prossimi anni.

Prima che la tecnologia venga realmente utilizzata su una missione robotica bisognerà anche ridurre le dimensioni, il peso e il dispendio energetico, oltre che migliorare la sensibilità della strumentazione. Nel frattempo, alla NASA stanno lavorando al perfezionamento degli algoritmi di calcolo in attesa di un secondo periodo di presa dati con l’esperimento SEXTANT previsto nei prossimi mesi.

In un futuro, magari non troppo lontano, diventerà possibile sfruttare questa navigazione con le pulsar in raggi X anche per l’esplorazione umana dello spazio profondo.

 

Bibliografia:

https://www.aps.org/publications/apsnews/200602/history.cfm

http://www.astro.cornell.edu/academics/courses/astro201/psr1913.htm

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