Ci sono pochissimi film che parlano di scienziati veri. Al limite, sono scienziati un po’ matti che che diventano supereroi grazie ad un esperimento sbagliato. Mai grazie ad un esperimento ben riuscito, ora che ci penso.

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Radiazioni, creano supereroi dal 1961 (ma solo nei fumetti, immagine di Wikipedia)

Gli scienziati veri affrontano mille difficoltà per raggiungere il loro scopo finale: vedere il loro risultato pubblicato su una rivista scientifica prestigiosa. Il massimo della gioia per uno scienziato è vedere i suoi risultati su Nature, considerato la testata scientifica più prestigiosa del mondo. A parte la storia, c’è un motivo per cui Nature ha questa fama. Il motivo è che tutti vorrebbero vedere il loro lavoro lì sopra e che chi seleziona gli articoli lo fa, da oltre un secolo, con grande cura ed attenzione: questo garantisce la qualità altissima di ogni contributo pubblicato. Per far questo, ogni volta che un articolo viene ricevuto in redazione, si nomina un gruppo di revisione (i peer reviewer, revisori “alla pari”, esperti dell’argomento trattato) che valuta attentamente il lavoro. Questi reviewer sono anonimi e non hanno mai contatti diretti con gli autori, ma, attraverso l’editore, consigliano modifiche, raccomandano approfondimenti, decidono se il pezzo va pubblicato o no.

Avere articoli pubblicati, però, è il modo principale in cui vengono selezionati ricercatori e professori nelle università e negli enti di ricerca di tutto il mondo: per questo, oltre ai giornali “seri”, che fanno revisioni e controlli, prima di pubblicare un articolo ne vengono fuori a decine che hanno un approccio un po’ più “easy” alla selezione del materiale da pubblicare. Proprio oggi ne parla Repubblica online, che ci racconta la storia di un ricercatore (serio) americano che, con tanta fantasia e un programmino che crea combinazioni di parole semicasuali, ha inviato ad oltre 300 riviste (meno serie di lui) articoli completamente privi di fondamento scientifico. La metà delle riviste ha pubblicato lo “studio” senza nemmeno richiedere revisioni.

Questa situazione ha un sacco di risvolti, tutti negativi. Prima di tutto, lo scienziato serio troverà sulla sua strada dei colleghi meno seri che barano per avere un curriculum migliore del suo. Questo è terribile, ma il problema dovrebbe rimanere confinato nell’ambito scientifico, per lo meno. Il secondo effetto è ben più universale: già proliferano gli slogan “studi scientifici affermano che”, con il dilagare di riviste pronte a pubblicare qualunque bestialità, anche questo malcostume potrà accrescersi a dismisura. Potremmo essere sopraffatti da

  • Pubblicitari che ci propongono colluttori
  • Inventori di fonti di energia eterne
  • Nostalgici della frenologia e appassionati di craniometria
  • Scopritori di civiltà aliene
  • Esperti di scie chimiche e complottisti
  • Guaritori che riscoprono cure egizie
  • Mentecatti di ogni genere

Tutti questi personaggi potranno portare con orgoglio un argomento fortissimo a sostegno delle loro debolissime tesi: una rivista scientifica ha pubblicato qualcosa che conferma quanto dico.

Probabilmente state pensando che esagero e che gioco anche io a fare il complottista finedimondista. Be’, in realtà, in effetti, sinceramente, le cose non stanno come le ho raccontate finora, ma un po’ peggio. Recentemente è tornato alla ribalta uno studio scientifico secondo cui chi è più intelligente è più portato a bere o usare altre sostanze psicotrope (crederci è bellissimo, in effetti). Pochi giorni fa è stato pubblicato su internet questo pezzo che ne parla, ad esempio. È breve, ma circostanziato. Ora, l’articolo a cui fa riferimento non è proprio recentissimo, perché se ne parla già a gennaio 2012 e ancora prima a dicembre 2010, che mi pare essere il riferimento più antico in lingua italiana. Sul riferimento all’autore, John D. Mayer, be’, viene citata l’Università dove ha fatto il dottorato (conseguito nel 1979) come attuale luogo di lavoro, e sul sito della rivista citata non c’è traccia dell’articolo. Non c’è traccia dell’articolo in tutta la produzione del Professor Mayer, in verità.

Andando ai riferimenti (cliccando sui link direttamente, nemmeno cercando altre cose) in inglese, ci si perde rapidamente. Qui troviamo più o meno quello che avevamo letto sui post in italiano, ma se proviamo ad accedere alle fonti citate arriviamo qui dove non troviamo più nessun riferimento né all’alcol né al tabacco. In pratica, nella lunga catena di citazioni, traduzioni, sentito dire, si è creata una notizia di cui è pressoché impossibile risalire alla fonte, sempre che la fonte esista. Esiste l’autore, esiste la rivista, ma pare che non esista l’articolo. Oppure, può essere stato scritto da un altro. Oppure, può essere stato pubblicato su un’altra rivista, magari una di quelle che pubblicano qualunque cosa.

La vita dello scienziato vero è durissima. Qui cerchiamo di segnalare nel modo più chiaro possibile le fonti che abbiamo utilizzato per scrivere i nostri post, controllateli, approfondite e, soprattutto, pretendete da tutti che le fonti siano chiaramente identificate e che possano essere controllate senza problemi. Chi vi nasconde le fonti potrebbe avere anche qualcos’altro, da nascondere.