Dal virus creato in laboratorio ai rischi del 5G, recenti stime dicono che il 104.3% delle “teorie alternative” nascono dal mancato rispetto delLEBBASI della scienza moderna.

Per capire come funziona la scienza, tutta la scienza, perfino la medicina e alcuni dicono anche le scienze umane, nel XXI secolo bisogna tenere sempre ben presenti alcuni ingredienti base. Questi, come pasta base, pomodoro e mozzarella per la pizza, fungono da fondamento di ogni progresso scientifico, e non solo oggi, ma da secoli. Più della pizza, ché la mozzarella è al confronto innovazione recente.

Il primo ingrediente è il metodo scientifico. Normalmente attribuito a Galileo, probabilmente è anche antecedente, ma è il genio italiano ad averlo sistematizzato. Il metodo scientifico, fondamentalmente, si basa sul fatto di procedere in alcune fasi codificate, quando si cerca di costruire la conoscenza. In generale, se volessimo descrivere per esempio una proprietà di un nuovo virus, dovremmo procedere così:

  • Identificare tutto quello che già conosciamo su quel nuovo virus;
  • Postulare un’ipotesi che sia in accordo con tutte le osservazioni già effettuate e che – fondamentale – ci permetta di prevedere qualcosa di ancora non osservato;
  • Ideare un esperimento che possa convalidare o confutare la nostra ipotesi;
  • Una volta che l’esperimento abbia dato esito positivo, integrare la nostra nuova ipotesi nel corpus delle conoscenze sul nuovo virus.

Questo iter vale per qualunque scienza e per qualunque aspetto della ricerca. Una nuova teoria è tanto più valida quanti più campi di applicazione ha e quante più previsioni ci consente di fare su fenomeni che non abbiamo ancora osservato. Utile e meraviglioso scoprire un nuovo meccanismo nella replicazione del virus, ma saperlo prevedere ci dà un vantaggio molto più grande nel momento in cui cerchiamo una cura.

Galileo ha lavorato tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo, ma l’importanza dell’identificare esperimenti che possano non solo convalidare, ma anche confutare una nuova teoria è diventata lampante solo nel XX, con Karl Popper. Una teoria scientifica non va nemmeno presa in considerazione se non ci permette di prevedere il risultato di una misura che non è mai stata fatta: grazie a quella misura possiamo falsificare la teoria e buttarla via se fallisce. Ogni volta che leggiamo “ulteriore conferma alla teoria della relatività di Einstein” in realtà dovremmo leggere “anche stavolta la relatività di Einstein ha resistito a un tentativo di farla crollare”.

Sì, perché lo scienziato, per la maggior parte del tempo, cerca di uscire da quello che già sa. Cerca di far crollare la teoria accettata. Cerca di trovare il baco che ci consenta di avanzare nella nostra comprensione di quello che ci circonda. Belle le conferme, ma la vera gloria viene dal distruggere una certezza, dal poter mettere in ogni libro un nuovo capitolo con il tuo nome. Gli esperimenti, nella maggior parte dei casi, cercano di confutare l’ipotesi nulla, ovvero di misurare una deviazione dal comportamento atteso nel caso in cui non stia succedendo niente di interessante. Pensiamo di voler dimostrare che un dado è truccato. L’ipotesi nulla è che non lo sia e che ogni faccia esca con la stessa probabilità. L’esperimento consisterà nel lanciare un numero enorme di volte il dado e registrare ogni uscita, sperando di riuscire a dimostrare, alla fine, che una faccia esce statisticamente più spesso o più raramente delle altre.

Un altro ingrediente fondamentale per ogni teoria scientifica viene dal medioevo, periodo che associamo all’oscurantismo, e a un frate francescano, Guglielmo di Occam. Il suo famoso rasoio ci ricorda sempre che frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, ovvero quello che si può fare con poco non deve essere fatto con molto. In altre parole, se una teoria con tre equazioni e una con quattro descrivono gli stessi fenomeni, dovremo prendere per buona quella con tre, finché non avremo misurato qualcosa che ce la farà scartare. Questo punto sembra uno strumento di falegnameria mentale per filosofi, ma ha un significato molto profondo. In un sistema di equazioni lo spazio delle soluzioni ha tante dimensioni quante sono le incognite meno le equazioni linearmente indipendenti, non tutte: aver moltiplicato senza necessità il numero di equazioni non influisce sul risultato, ma complica soltanto il calcolo. Allo stesso modo, aggiungere equazioni, parametri e descrittori può rendere la teoria più aderente ai risultati, ma può anche farle perdere ogni capacità predittiva: un polinomio di grado n passa esattamente per n+1 punti, ma se i punti seguono un andamento diverso, per esempio un logaritmo, il polinomio non saprà descrivere il punto n+2, quando con l’equazione giusta si aveva bisogno di due soli parametri.

A sinistra: la curva arancione (una funzione logaritmica, identificata da due parametri) approssima i punti sperimentali peggio di un polinomio di sesto grado (identificato da sette parametri, curva azzurra). Se aggiungo un punto (grafico a destra), vedo come la curva arancione sia molto meglio, con i suoi due parametri, rispetto alla curva azzurra.

Prima di dar credito a qualunque sedicente teoria scientifica, quindi, dobbiamo sempre chiederci se è efficace a descrivere tutti i fenomeni conosciuti, idonea a prevedere qualcosa che non è stato ancora misurato, falsificabile con un esperimento fattibile e soprattutto semplice, perché nella complessità raramente c’è la bellezza della natura, spesso c’è la bruttezza della mente della gente brutta.

Note:
1: Uso qui il concetto positivista della creazione della conoscenza, ma se siete platonici potete leggere “accrescere la nostra conoscenza degli enti supremi a cui la realtà fa riferimento” e il concetto cambia pochissimo.
2: Oppure non ne ha, ma vuol comunque dire che due equazioni descrivono due sottospazi paralleli, di fatto lo stesso sottospazio traslato.

Immagine di copertina: Metodo scientifico via TTStudio/Shutterstock