Il cemento è un materiale con cui costruiamo un’infinità di cose, al giorno d’oggi. Il suo uso, però, è molto più antico di quello che possiamo pensare: già gli egizi, cinquemila anni fa, usavano un impasto a base di gesso per fare intonaci, ma è con i romani, intorno al primo secolo avanti Cristo che troviamo il cemento in versione “quasi moderna”. La scoperta alla base di questa piccola rivoluzione è la proprietà della polvere vulcanica di Pozzuoli che, se ridotta a polvere finissima, è in grado di reagire con l’acqua per creare un cemento molto più duro in un tempo molto più breve rispetto a tutte le malte a base di calce e gesso usate prima. Questa polvere vulcanica, puteolana pulvis, dà tutt’ora il nome a uno dei componenti più diffusi dei cementi moderni, la pozzolana.

Da allora ne è passata di acqua sotti i ponti, alcuni dei quali costruiti proprio dai romani con la loro ingegneria incredibilmente avanzata e anche negli “ingredienti” del cemento ci sono state notevoli innovazioni, grazie anche alla scoperta dei meccanismi chimici alla base di presa e indurimento. Il maggiore cambiamento, in questi due millenni, si è avuto a metà del diciottesimo secolo, quando l’inglese Smeaton scoprì che la calce, addizionata di argilla nella giusta quantità, poteva reagire e comportarsi come collante anche in acqua. All’inizio del diciannovesimo si ha l’ultima rivoluzione, con l’affermarsi del cosiddetto cemento Portland.

Alla base di tutti questi cementi c’è la cottura a temperatura superiore ai 1000ºC di rocce calcaree o marnose: in questo processo, il carbonato di calcio si trasforma in ossido di calcio, liberando anidride carbonica. L’ossido di calcio è fortemente reattivo con l’acqua e prende il nome di calce viva: “spegnendola” con l’acqua si ottiene idrossido di calcio, che è invece inerte (calce spenta). Una volta macinata finemente e impastata con l’acqua, la calce riassorbe anidride carbonica dall’aria, ritrasformandosi in carbonato di calcio, legando i granelli tra loro e creando un materiale solido e rigido. Da sola, come dicevamo, la calce indurisce molto lentamente: ad aiutare il processo contribuiscono gli ossidi di silicio e di alluminio anch’essi presenti nelle rocce.

Oggi la maggior parte dei cementi è a base Portland, quindi ottenuta da calcari e argille o rocce marnose, addizionata di altri elementi, in particolare contenenti ferro. Questo conferisce il caratteristico colore grigio alla maggior parte del cemento che vediamo in giro. L’evoluzione della nostra conoscenza non ha introdotto comunque nulla di straordinariamente esotico, per la maggior parte si tratta, ancora, di pozzolana. In alternativa, si possono usare le scorie di altoforno, cioè ciò che esce insieme alla ghisa e che è, fondamentalmente, silice “sporca” di ferro.

In questa mescolanza di composti del calcio, dell’alluminio, del silicio e del ferro, per citare i principali, si formano molte nuove molecole, con velocità diverse a seconda della “ricetta”. Avremo così i cementi “di pronta presa” o quelli “lenti”, ma in ogni caso alla base dell’indurimento avremo un ricombinamento degli atomi a creare legami tra i granelli di polvere a cui è stato ridotto il materiale di partenza.

Il limite principale del cemento è legato alla sua natura di agglomerato di composti chimici che continuano a evolvere. Dopo l’indurimento, infatti, altri processi portano a un lento degrado delle sue caratteristiche, fino a causarne lo sbriciolamento. Questo processo può essere anche molto accelerato in ambienti particolarmente aggressivi, come per esempio l’acqua di mare. Questa è particolarmente deleteria soprattutto per il calcestruzzo armato, cioè per strutture in cemento rinforzate con una intelaiatura di ferro: queste ultime, infatti, anche se protette dal cemento, tendono a risentire dell’ambiente salmastro e arrugginiscono. La ruggine occupa un volume maggiore del ferro e questo provoca fessurazioni nel cemento, attraverso cui l’acqua salata può entrare più rapidamente e il processo accelera, fino alla distruzione degli artefatti. Senza una manutenzione continua, una struttura in cemento armato in prossimità del mare ha una vita media di pochi decenni.

Tra i più famosi esempi di calcestruzzo di epoca romana, la cupola del Pantheon a Roma, costruita nel II secolo d.C.: tutt’ora è la piiù grande cupola in calcestruzzo mai costruita ed è al più seconda tra le cupole in generale. (foto bruno pagnanelli by Shutterstock).

A meno che non sia stata costruita con la ricetta degli ingegneri romani di duemila anni fa…

Se visitiamo le nostre coste, in effetti, vediamo resti straordinariamente ben conservati di moli e banchine risalenti all’età imperiale romana, costruiti in pietra e cemento. Quel cemento ha resistito cinquanta o cento volte più a lungo di quello che usiamo comunemente oggi… e non è colpa della corruzione, per una volta!

In realtà, per capire cosa c’è alla base di questa straordinaria longevità, c’è voluto molto tempo e molto lavoro, culminato nella pubblicazione, pochi giorni fa, di un articolo a firma di scienziati italiani, americani e cinesi. In questo lavoro si evidenzia la formazione di composti estremamente rari e difficili anche da ottenere in laboratorio, come la alluminio-tobermorite, che conferisce eccezionale durezza al cemento. Questa si forma, sorprendentemente per gli scienziati stessi, dalla phillipsite contenute nella pozzolana (o, almeno, in alcune varianti di pozzolana particolarmente fortunata) a contatto con l’acqua di mare che, in questo caso, rende il cemento sempre più duro e resistente. La sorpresa sta nel fatto che, in laboratorio, nessuno è mai riuscito a trasformare la phillipsite in tobermorite a temperatura ambiente… ma il mare è grande e complicato, e sa sempre riservarci delle sorprese, a volte anche con oggetti che sono sotto i nostri occhi da millenni. Letteralmente.

 


Immagine di copertina: resti del Portus Cosanus, vicino a Grosseto, da cui sono stati prelevati campioni per le analisi del cemento romano (immagine da wikimedia commons)