L’epidemia degli olivi dovuta a Xylella fastidiosa risale lentamente verso la parte nord della Puglia e, nel frattempo, i media continuano ad affrontare l’argomento.

Qualche sera fa ero davanti al teleschermo mentre una notissima TV locale passava un programma di, ehm, approfondimento sulla malattia degli olivi pugliesi, che mi ha suggerito alcune considerazioni. Il programma aveva la classica struttura del talk show condotto in studio, dove il dibattito era intervallato da alcuni servizi esterni. Tra gli ospiti presenti c’era uno tra gli scienziati più attivi negli studi su Xylella, che ha naturalmente illustrato ciò che le ricerche ci dicono della pericolosità e dell’avanzata dell’infezione, rimarcando la dolorosa necessità di procedere all’abbattimento delle piante nella cosiddetta “zona di contenimento”, come prevedono le direttive europee.

Purtroppo, però, nel corso della trasmissione, agli interventi razionali dello scienziato e di pochi altri ospiti si sono alternati quelli, di ben diverso tono, di altri personaggi. C’era, per esempio, un noto olivicoltore seguace di spiegazioni e pratiche “alternative” che parlava dal proprio oliveto, dove l’erba incolta formava tutt’intorno una specie di foresta. Condizioni da far rizzare i capelli in testa a chi sa bene che l’erba alta favorisce l’espansione incontrollata delle sputacchine, gli insetti che trasmettono l’infezione. Ma il proprietario del terreno si giustificava dicendo che avrebbe atteso il giusto tempo (indicato dalla teoria complottista di turno) per falciare l’erba e lasciarla decomporre sul terreno, arricchendolo di “sostanza organica” e permettendo alle piante di riceverne nutrimento. C’era anche il giurista sostenitore dei proprietari che hanno fatto ricorso contro gli abbattimenti che, mostrando inattese competenze scientifiche, metteva in dubbio il fatto che il nesso disseccamento-Xylella fosse stato provato con certezza, arrivando anche a lanciare gravi accuse contro gli scienziati, tacciati di monopolizzare la ricerca e di impedire ad altri gruppi, indipendenti da loro, di dedicarvisi. Ho fatto solo un paio di esempi, ma il tenore della discussione è stato questo. Come in una grottesca parodia del terzo principio della dinamica, a ogni affermazione rigorosa sul piano scientifico ne corrispondeva una uguale e contraria di tipo pseudoscientifico.

«Ma è giusto!», si dirà. «È il giornalismo, bellezza. Sono le due campane, e tu non ci puoi fare niente». Sappiamo tutti, infatti, che uno dei primi principi che il giornalista impara è quello che prevede un’impostazione equilibrata del dibattito e la sistematica ricerca del contraddittorio. Le due campane, appunto. Tizio N. 1 dice A, e io, che faccio il giornalista, vado anche a sentire Tizio N. 2 che dice Z, e lascio che sia il lettore a scegliere che cosa pensare. Tutto buono e giusto, se non fosse per il fatto che il giornalismo scientifico non funziona in questo modo e quando si parla di scienza le regole del gioco cambiano.

Scendiamo nel pratico. Poniamo il caso di aver strutturato un programma televisivo di argomento scientifico, per parlare, per esempio, dell’acqua. Do la parola allo scienziato che afferma compito: «Quella dell’acqua è una molecola polare nella quale due atomi di idrogeno sono legati covalentemente a un atomo di ossigeno». Faccio poi parlare lo pseudoscienziato (ciarlatano, per gli amici), che dice, invece: «Mi oppongo a questa fredda e asettica descrizione: in realtà, studi olistici e quantoastronomici hanno rivelato che l’acqua è formata dalla fusione spirituale di ossigeno materico e idrogeno sottile, tenuti assieme dal respiro della vita che pervade tutti noi». È così via: lo scienziato parla, lo pseudoscienziato ribatte. Titoli di coda e sigla finale. Qual è il risultato di questa operazione? Che cosa ho fatto, in ultima analisi? È presto detto: ho confuso il mio spettatore e ho scelto la strada della disinformazione. Questo perché, come ottimi comunicatori della scienza hanno messo in rilievo, la peculiarità del giornalismo scientifico sta proprio nell’inapplicabilità della regola delle due campane. Non è, infatti, possibile mettere sullo stesso piano un’affermazione che è il frutto evidence based del lavoro della comunità scientifica, e del metodo che essa condivide, e la personale visione di qualcuno. E quando, giornalisticamente, si sceglie questa strada non si fa informazione e quindi si abdica al ruolo stesso del giornalista. Lo stesso accade quando, parlando di scienza in una conferenza, si mettono dietro a una cattedra lo scienziato e lo pseudoscienziato, a discutere su un piano di parità.

È bene, però, sottolineare come rigettare le due campane non comporti certamente il rifiuto del dibattito, che è parte integrante della scienza. Soprattutto quando ci si occupa di problemi complessi e di meccanismi non ancora pienamente sondati, capita spesso che gli scienziati si confrontino assumendo posizioni diverse, talvolta inconciliabili. Ma quando si “gioca pulito”, applicando le regole che la comunità scientifica condivide, si rimane a pieno titolo nell’ambito della “campana” della scienza. Sarà il tempo a chiarire quale posizione sia più coerente con le osservazioni sperimentali. La pseudoscienza applica, invece, un’indebita forzatura proprio a questo meccanismo di base, su cui si regge l’intero edificio delle nostre conoscenze. Lo si può fare in modo più o meno scoperto (ci sono pseudoscienziati più abili di altri a simulare una credibilità scientifica) ma il risultato non cambia. Se vogliamo, è un po’ come sfidare qualcuno a giocare una partita e assicurarsi la vittoria barando.

Non dimentichiamo, inoltre, che è quasi fatale che lo scienziato esca sconfitto in questo genere di dibattiti. Molto spesso la pseudoscienza si serve delle armi della retorica per vestirsi di autorità e affascinare chi ascolta o legge. Adopera un lessico “caldo” e inclusivo (per esempio, il “noi” invece della fredda terza persona), si richiama a valori condivisi, adopera gradevoli metafore spirituali e accostamenti azzardati ma affascinanti. La scienza si nutre di complessità. Non esclama, adopera percentuali e verbi al condizionale, ha margini di incertezza e tempi lunghi che hanno molto poco appeal. Uno degli obiettivi della comunicazione della scienza è anche quello di risolvere i cortocircuiti comunicativi tra lo scienziato e il suo pubblico, ma di fronte allo pseudoscienziato che può piegare la realtà ai propri scopi non c’è partita.

Dispiace particolarmente che il dibattito pubblico sui temi scientifici continui a essere inquinato da questi fattori. È un problema che non può essere sottovalutato e che riguarda la responsabilità sociale di chi fa informazione. Pensiamoci.

 


Immagine di copertina by Cesare Palma from Shutterstock