Leggo ed onestamente fatico ad accettare un articolo apparso oggi sul sito di Repubblica Online a firma di Elena Dusi. Il titolo è di quelli clamorosi, che marchiano a fuoco un’intera categoria: “Così gli scienziati truccano le ricerche”.
Questo titolo non lascia scampo, è disarmante.
Si dice, in breve che secondo uno studio dell’Università di Washington e della Albert Einstein di New York, lo 0,01% delle pubblicazioni in campo medico è biologico sarebbero falsate.
Approfondendo la lettura dell’articolo il tutto si rivela piuttosto fastidioso, citando superficialmente le fonti, rendendole veramente difficili da controllare e il tutto condito da un onnipresente tono di scoop e caccia alle streghe che distoglie l’attenzione dal problema principale e serve solo ad alimentare lo sdegno nei confronti dei ricercatori (tutti!), screditando di fatto un’intera categoria di persone che (in Italia in particolare) lavorano praticamente per la gloria.

Qual è in realtà il problema principale? Noi a Scientificast siamo risaliti alla fonte ed in particolare all’articolo di Nature che riprende uno studio pubblicato dal Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) dal titolo Misconduct accounts for the majority of retracted scientific publications (trad. La cattiva condotta come causa della maggior parte delle ritrattazione nelle pubblicazioni scientifiche).

L’articolo dice che la maggiore causa delle “ritrattazioni” di articoli in campo medico o biologico non è dovuta ad errori involontari ma è determinata dalla cattiva condotta nella realizzazione degli esperimenti e nella pubblicazione dei dati, comportamento che può nascondere vere e proprie frodi; in particolare pare che solo il 21,3% delle ritrattazioni siano dovute ad errori non voluti e il restante 67,4% sia dovuto a cattiva condotta comprendente frodi (43,4%), articoli duplicati (14,2%) e plagio (9,8%). L’articolo approfondisce molto bene il tema e in effetti pone l’attenzione sull’aumento percentuale di casi del genere nell’arco di trent’anni cercando di analizzarne  cause e  rischi.
Nonostante la percentuale sia davvero bassa (lo 0,01% delle intere pubblicazioni), sicuramente l’argomento è degno di nota, non deve essere preso sotto gamba e crea preoccupazione, in primis a noi che segnaliamo puntualmente i casi più eclatanti di cattiva scienza e non esitiamo a denunciare anche il fallimento dei processi base per l’attendibilità scientifica come il peer-review (ne abbiamo parlato nella recente puntata del podcast in merito all’argomento mais OGM).
Quindi vi consigliamo vivamente di approfondire questa lettura che porrà senz’altro anche spunti di riflessione all’intera comunità scientifica e dei ricercatori oltre che motivi di riflessioni in merito all’etica professionale di chi studia, ricerca e si rende responsabile di pubblicare dati e scoperte che possono influenzare, nel bene o nel male, la vita di milioni di persone.

Il caso di cattivo giornalismo di Repubblica però resta e pone però altri serissimi interrogativi che vi propongo:
Perché omettere l’utilizzo di hyperlink che riportino ai testi originali? Sarebbe quantomeno corretto per chi lo studio l’ha pubblicato e dimostrazione di assoluta trasparenza nei confronti del lettore.
Perché la maggior parte delle testate estere ha titolato correttamente, centrando il succo del problema (faccio un solo esempio: “Misconduct, not research error, behind most retractions, study says” Los Angeles Time) mentre Repubblica ha pensato un titolo molto generico che getta fango sull’intera categoria?
Perché quando si parla di scienza sui giornali, c’è sempre una superficialità di fondo nella scelta dei titoli e nell’approfondimento dei contenuti?

Infine, sarebbe stato interessante aprire uno spazio per i commenti in calce all’articolo. Penso che molti ricercatori oggi siano sdegnati da una simile superficialità e avrebbero molto da ridire su come il tema è stato trattato. Lo facciamo qui. Lo spazio per i commenti qua sotto è per voi.

Paolo Bianchi