La plastica è il materiale più di successo che sia mai stato inventato. Il legno, le fibre vegetali, i metalli e pochi altri materiali sono stati la materia prima per la costruzione di tutti gli oggetti di cui ci siamo serviti nel corso di millenni. Poi, quando poco più di 150 anni fa è stata sintetizzata per la prima volta, la plastica ha preso il sopravvento. Quasi tutto quello che ci circonda, dal computer che stai usando per leggere questo articolo alla sedia su cui ti trovi, dai vestiti che indossi alla bottiglia d’acqua che hai sul tavolo, è fatto, almeno in parte, di plastica.
Col nome ”plastica” ci si riferisce a una varietà di materiali dai nomi complicati spesso abbreviati in sigle come PE, PS, PET, PVC, PP, PA…Quello che li accomuna è proprio quella “P” iniziale che sta per “poli”, e indica che sono costituite da polimeri, lunghissime molecole che si intrecciano tra loro a formare un reticolato. Le proprietà del reticolato e della plastica dipendono dal tipo di polimero utilizzato e dalla loro combinazione: avremo plastiche dure o elastiche, rigide o flessibili, più o meno resistenti al calore e così via. Insomma, si tratta di un materiale versatile e resistente, che sembra soddisfare ogni esigenza.
Il problema
Come sappiamo, però, quella della plastica non è una storia a lieto fine. Basta camminare su qualunque spiaggia per rendersi conto che la resistenza della plastica sta creando danni ambientali a lunghissimo termine. Tutti i materiali naturali di origine organica, infatti, hanno una lunga storia di convivenza sul pianeta con gli organismi decompositori. Questi ultimi sono funghi e batteri che nel corso di milioni di anni hanno imparato a digerire e scomporre la materia organica nei suoi costituenti essenziali a base di carbonio, ossigeno e idrogeno. Anche la plastica è composta da questi elementi essenziali, ma nel corso della sua sintesi le singole unità presenti nel petrolio (dette monomeri) vengono unite tra loro a formare lunghe catene con un tipo di legame che in natura è molto raro o assente. Si ottiene così un materiale molto resistente ma del tutto nuovo, che pochissimi microrganismi naturalmente presenti nell’ambiente sono in grado di digerire.
I 300 milioni di tonnellate di plastica che produciamo ogni anno si trasformano in oggetti di cui difficilmente riusciremo a sbarazzarci. Ironicamente, buona parte della plastica che utilizziamo quotidianamente rientra nella categoria “usa e getta”: un sacchetto della spesa, un bicchiere di plastica o una bottiglietta d’acqua vengono usati una sola volta e poi abbandonati a un’esistenza di decine o centinaia di anni. Ancora oggi, molta della plastica che buttiamo via e che non viene dispersa nell’ambiente va a finire nelle discariche, dove probabilmente rimarrà per sempre. Una parte, invece, viene bruciata rilasciando gas e ceneri nell’aria. Almeno in certi casi, parte dell’energia ricavata dalla combustione può essere recuperata nei termovalorizzatori. Il riciclo, che può dare nuova vita al materiale dopo il suo primo utilizzo, è limitato e parziale a causa delle difficoltà logistiche della raccolta differenziata e dal fatto che ogni tipo di plastica va trattato in modo diverso.
L’alternativa bioplastica
La bioplastica è la sorella minore delle plastiche tradizionali, figlia dell’impossibilità di rinunciare del tutto a questo materiale e della consapevolezza che il sistema attualmente in uso è insostenibile sul lungo periodo. Il termine bioplastica è in realtà molto generico e comprende materiali diversi tra loro: sono bioplastiche le plastiche “biobased” che cercano di affrontare il problema della ricerca di materie prime rinnovabili; sono bioplastiche anche quelle che per la loro struttura chimica possono essere attaccate dagli organismi decompositori e quindi biodegradate.
Le due caratteristiche non dipendono l’una dall’altra e possono essere o meno presenti in uno stesso materiale. Per esempio, il PBAT (polibutirrato) è sintetizzato a partire da derivati del petrolio, ma è biodegradabile; il PE (polietilene) può essere di origine non fossile, ma non è biodegradabile. Molte altre bioplastiche, invece, sono sia biobased che biodegradabili: è il caso del PBS (polibutilene succinato) e delle bioplastiche ottenute da miscele di amido.
Come si legge dal sito di European Bioplastics, «a oggi c’è un’alternativa bioplastica per quasi ogni tipo di plastica convenzionale». L’affermazione è forse un po’ azzardata, ma si stima che ricerca e sviluppo in questo settore porteranno le bioplastiche a sostituire l’85% delle plastiche di origine fossile nel medio-lungo termine. Finora, però, il mercato delle bioplastiche rappresenta meno dell’1% del totale. Una loro maggiore diffusione richiede sicuramente incentivi per sostenere i costi produzione ancora molto elevati e regolamentazioni specifiche da parte dei governi e delle istituzioni. Per esempio, l’Italia è stato il primo paese europeo che ha bandito la distribuzione di sacchetti monouso non biodegradabili, i quali vengono utilizzati (e buttati) al ritmo di circa 80 miliardi di unità all’anno solo in Europa.
I sacchetti che da qualche anno troviamo nei supermercati – spesso criticati per la loro (presunta) fragilità e il loro odore poco gradevole – hanno anche il vantaggio di essere compostabili. Compostabile e biodegradabile sono termini che vengono spesso confusi: in realtà il primo indica un sottogruppo del secondo e necessita una fine regolamentazione. Come definito dalla norma europea EN 13432, una plastica per essere compostabile non solo deve essere biodegradabile per almeno il 90% nell’arco di 6 mesi (secondo il metodo standard ISO 14855), ma deve anche frammentarsi velocemente, mantenere invariate le qualità del compost e contenere una concentrazione di metalli pesanti, sali e altri minerali entro limiti stabiliti. Solo così si può ottenere un compost che garantisce la sicurezza e la fertilità dei terreni su cui è distribuito.
Anche se sulla carta le bioplastiche sembrano presentare solo vantaggi per l’ambiente e per la riduzione del consumo di risorse non rinnovabili, bisogna anche valutare i rischi che questi nuovi materiali portano con sé. È necessario che i consumatori comprendano che il fatto che un oggetto sia biodegradabile non giustifica la sua dispersione indiscriminata nell’ambiente. I prodotti biodegradabili riciclabili vanno raccolti in un modo, quelli destinati al compostaggio in un altro, in accordo con le disposizioni locali per la gestione dei rifiuti.
A oggi, le plastiche biobased si ottengono soprattutto da prodotti della lavorazione di mais, patate, barbabietole, cassava e canna da zucchero, prodotti alimentari ad altissimo contenuto energetico. C’è chi teme che questo possa instaurare una competizione nell’uso dei terreni agricoli tra coltivazione di beni alimentari e “coltivazione di plastica”. Secondo stime del 2014, i terreni destinati alla produzione di bioplastica erano lo 0.01% dei terreni agricoli totali. Anche nel caso di un aumento della richiesta di bioplastica nei prossimi anni, magari supportata da decisioni politiche, si rimarrebbe comunque ampiamente sotto l’1%, una frazione molto piccola se confrontata, per esempio, con il 70% destinato al pascolo. Un’altra possibilità è quella di produrre bioplastica a partire dagli scarti della lavorazione degli alimenti. La buccia della frutta, il guscio dei semi e gli steli degli ortaggi che normalmente buttiamo via potrebbero diventare la base della produzione di bioplastica. Da un lato si risolverebbe il problema dello smaltimento dei rifiuti organici, dall’altro quello della ricerca di materie prime rinnovabili per la produzione di plastica.
Le bioplastiche forse ci aiuteranno ad affrontare il problema della gestione dei rifiuti, ma avranno un apporto marginale se non cambieremo completamente il nostro approccio. Quello che ciascuno di noi nel nostro piccolo può fare è seguire la regola della “Gerarchia dei Rifiuti”, introdotta in Europa più di quarant’anni fa: Previeni, Riduci, Riutilizza, Ricicla, e solo dopo Smaltisci.
Fonti e letture:
– Sito European Bioplastics
– Sito Commissione Europea, sezione Waste
– Assessment of impacts of options to reduce the use of single-use plastic carrier bags, Commissione Europea, PDF
– Direct Transformation of Edible Vegetable Waste into Bioplastics, Ilker S. Bayer et al., Macromolecules, 2014, DOI: 10.1021/ma5008557
Immagine di copertina: Mohamed Abdulraheem by Shutterstock
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