Uno dei simboli più rappresentativi dei Giochi Olimpici è il braciere che arde per tutto lo svolgimento della manifestazione, il famoso fuoco olimpico. Per me, almeno, l’accensione e lo spegnimento del tripode sono momenti particolarmente emozionanti: mi basta ripensare all’edizione di Atlanta 1996, quando l’ultimo tedoforo fu Muhammad Alì, per avere un brivido. Il fuoco era un simbolo dei giochi già nell’antichità, quando era considerato un simbolo divino e anche i giochi stessi avevano una forte connotazione religiosa. Così forte che, quando venivano disputati, si interrompevano persino le guerre. Oggi parecchie cose sono cambiate, ma qualcosa dal sapore molto antico c’è ancora, come la cerimonia di accensione.

Il fuoco olimpico viene acceso a Olimpia, in Grecia, utilizzando uno specchio parabolico, che concentra i raggi solari. Questo sistema funziona grazie alla cosiddetta autoignizione, ovvero al fatto che ogni sostanza combustibile prende spontaneamente fuoco in presenza di ossigeno al di sopra di una certa temperatura. Per esempio, un foglio di carta si incendia se riscaldato sopra i 250 ºC circa. La temperatura di autoignizione non va confusa con la temperatura di infiammabilità, o flash point, che invece è la temperatura al di sopra della quale una sostanza combustibile prende fuoco in presenza di un innesco, cioè di un’altra fiamma o una scintilla.

I normali accendini sono recipienti pieni di gas o di un liquido infiammabile, solitamente GPL o benzina, che viene liberato nell’aria quando azioniamo la levetta: contemporaneamente, provochiamo una scintilla che accende il gas, o con una rotella metallica che sfrega su una “pietra focaia”* o comprimendo un cristallo piezoelettrico. La benzina ha un punto di infiammabilità di circa -20 ºC, per cui i suoi vapori sono facilmente infiammabili in presenza di una scintilla: d’altra parte, il suo punto di autoignizione è di alcune centinaia di gradi centigradi, quindi possiamo tenere l’accendino in tasca con una certa tranquillità.

Ma torniamo ai nostri specchi parabolici. La radiazione solare porta una certa potenza: definiamo come costante solare la potenza che arriva agli strati più esterni dell’atmosfera e vale circa 1400 W/m2, con piccole variazioni annuali dovute all’eccentricità dell’orbita terrestre. Sulla superficie della Terra arriva circa il 45% di questa radiazione, per la riflessione e l’assorbimento da parte dell’atmosfera. Inoltre, se consideriamo la potenza che arriva per metro quadrato di suolo, questa dipende anche dalla latitudine, perché la costante solare è riferita a una superficie perpendicolare ai raggi solari.

Tale radiazione può essere concentrata con lenti e specchi e questo può far salire la temperatura abbastanza per provocare l’autoignizione di carta o paglia, come abbiamo visto per il fuoco olimpico, ma non solo. L’idea di usare degli specchi per concentrare la luce solare e provocare un incendio a distanza pare sia stata sviluppata nell’antichità a scopi bellici: si tratta degli specchi ustori, che molti autori (anche se tutti molto successivi ai fatti) dicono essere stati utilizzati dai siracusani per incendiare le navi romane che assediavano il porto della città, durante la seconda guerra punica, nel 212 a.C.: questi specchi sono indissolubilmente legati al nome di Archimede, il grande scienziato scopritore, tra le altre cose, del famoso principio che porta il suo nome.

È difficile immaginare che oltre venti secoli fa esistessero le tecnologie per costruire uno specchio parabolico, cioè a forma di paraboloide circolare, in grado di concentrare un fascio di raggi paralleli nel fuoco della parabola generatrice: è più probabile che si trattasse di specchi approssimativamente sferici o addirittura di un mosaico di specchi piani costituiti da semplici lastre metalliche lucidate. Non è chiaro, per gli storici, se questi specchi ustori siano mai stati veramente costruiti e utilizzati in guerra, tuttavia esperimenti recenti mostrano che sarebbe possibile incendiare una nave costruita con le tecniche e i materiali della Roma repubblicana concentrando opportunamente i raggi solari.

Molto più recente (e pacifica) è l’idea di concentrare con un sistema di specchi l’energia solare per riscaldare un fluido, produrre vapore, immetterlo in turbina e generare energia elettrica. Queste centrali solari a concentrazione hanno avuto alterne fortune, ma negli ultimi anni sono stati realizzati alcuni impianti davvero interessanti. A Priolo Gargallo, in Sicilia, è attiva la centrale solare termodinamica Archimede (e il nome non è certo casuale), che si basa su un sistema di specchi parabolici che concentrano la radiazione solare su tubi in cui scorre una miscela di sali fusi, in grado di raggiungere una temperatura superiore ai 550ºC. La capacità termica del sale, insieme all’alta temperatura, permette il funzionamento per alcune ore anche dopo il tramonto, e questo è uno dei più grossi vantaggi del solare termodinamico rispetto al fotoelettrico. La centrale Archimede, sfruttando circa 5 chilometri quadrati di campo solare, dove sono installati gli specchi, produce l’energia equivalente alla combustione di 2000 tonnellate di petrolio ogni anno. Non è molto, per ora, ma può essere una buona strada per il futuro.

Paavo Nurmi, ultimo tedoforo per le Olimpiadi di Helsinki del 1952.

Paavo Nurmi, ultimo tedoforo per le Olimpiadi di Helsinki del 1952.

Nel frattempo, torniamo alle Olimpiadi e aspettiamo che l’ultimo tedoforo, dopo aver attraversato un paio di continenti e toccato oltre 300 città brasiliane, accenda il braciere nello stadio Maracanã di Rio de Janeiro, l’impianto centrale per il giochi di questa trentunesima Olimpiade… e se a qualcuno tornasse anche l’ispirazione di interrompere le guerre, in occasione dei giochi, forse non sarebbe una cattivissima idea!

 


* In realtà, oggi si tratta di una lega di ferro e cerio, inventata nel 1903 dal chimico austriaco Carl Auer von Welsbach.