Il 30 aprile 1996, con un lancio da Cape Canaveral, venne messo in orbita SAX, Satellite per l’Astronomia a raggi X, poi affettuosamente ribattezzato BeppoSAX in onore dell’astronomo milanese Giuseppe “Beppo” Occhialini. In questi giorni ricorre il ventennale di questo progetto dell’Agenzia Spaziale Italiana, realizzato in collaborazione con la sua omologa olandese NIVR e il dipartimento di scienza spaziale dell’ESA. Il satellite concluse le sue osservazioni il 30 aprile 2002, per rientrare nell’atmosfera, una volta decaduta l’orbita, inabissandosi nell’Oceano Pacifico, il 29 aprile del 2003. Nata con l’obiettivo di caratterizzare ad ampio spettro le sorgenti celesti che emettono raggi X, BeppoSAX è stata fondamentale, in particolare, nello studio dei lampi gamma – in inglese, Gamma-ray Bursts. Ma, prima di tutto, che cosa sono questi lampi gamma e perché suscitano tanto interesse tra gli astronomi?

La scoperta dei lampi gamma, come tutte le grandi scoperte che si rispettino, avvenne per caso. Negli anni ’60, Russia e Stati Uniti D’America avevano sottoscritto un trattato per il bando parziale dei test nucleari. Gli americani, che non si fidavano molto dei russi, decisero di mandare in orbita dei satelliti con strumenti sensibili a raggi X e gamma per controllare che i rivali rispettassero gli accordi presi di non sperimentare bombe nucleari in atmosfera e nello spazio. Lanciarono pertanto i satelliti della serie Vela, così chiamati dallo spagnolo velar, osservare.  Fu uno di questi satelliti a rivelare il 2 luglio del 1967 un lampo gamma rapidissimo ma molto intenso. Il timore che i russi avessero violato l’accordo, che avrebbe causato sicuramente problemi nei rapporti diplomatici tutt’altro che distesi tra i due paesi, fu subito fugato grazie alla caratteristiche degli strumenti utilizzati, che, seppure non in grado di misurare esattamente la direzione di provenienza del segnale, permisero di escludere che il lampo gamma fosse stato originato all’interno del sistema solare*. Si trattava quindi di un fenomeno cosmico fino ad allora sconosciuto, che nessuno tra l’altro era in grado di spiegare. La notizia però non viene divulgata subito, perché le osservazioni erano poste sotto il segreto militare. Solo 6 anni dopo e diversi altri lampi gamma misurati, fu finalmente rimosso il segreto, consentendo agli astronomi di Los Alamos di pubblicare un articolo che presentava la scoperta. Il mondo scientifico si trovava di fronte a un nuovo enigma da risolvere. Da dove venivano questi lampi gamma? Quale meccanismo fisico produceva questi fenomeni?

Domande rimaste senza risposta a crucciare gli astronomi per tantissimo tempo: infatti, l’origine dei lampi gamma rimase avvolta nel mistero per altri 30 anni. Dopo i Vela, diversi satelliti registrarono dei lampi gamma, vennero pubblicati tipo 100 modelli diversi, ma non si riusciva a capire nulla di questo fenomeno. La domanda più impellente da risolvere era quella relativa all’origine dei lampi gamma, determinare cioè a che distanza fossero dalla Terra. Nel 1991 viene lanciato il satellite gamma GRO, Gamma-Ray Observatory, le cui osservazioni permisero di stabilire che i lampi gamma provengono da tutte le direzioni celesti. Ciò poteva essere spiegato o dal fatto che si trattasse di sorgenti molto vicine alla Terra, situate nell’alone della Via Lattea, come sosteneva Fred Lamb, oppure al contrario dovevano essere poste a distanze cosmologiche, ipotesi portata avanti da Bodan Paczynski. Ma, come faceva notare Martin Rees, si trattava in ogni caso di immaginare un gigantesco rilascio di energia in pochi secondi, in uno spazio di pochi chilometri, per spiegare le osservazioni effettuate.

Insomma, era davvero un bel mistero. Determinarne l’origine avrebbe permesso sicuramente di riuscire a comprendere in maniera più precisa il fenomeno, sfortunatamente l’accuratezza dei rilevatori di raggi gamma nel misurare la posizione, nel migliore dei casi, individuava una regione di un grado quadro nel cielo.

La svolta fu rappresentata proprio da BeppoSAX. Equipaggiato da ben 6 strumenti, copriva così una banda amplissima di energia, da 0.1 keV a 600 keV, come mai nessun satellite era stato in grado di fare in precedenza. Osservare però il cielo alle energie più alte non è semplicissimo, anche perché per i raggi X “duri”** e per i raggi gamma i telescopi a incidenza radente, di cui vi avevamo parlato qui, non sono “praticabili”. Per darvi un’idea della difficoltà, la prima missione spaziale con una tecnologia in grado di focalizzare raggi X duri è stata NuSTAR, satellite NASA lanciato il 13 giugno 2012. Ragion per cui, lo strumento di raggi X duri di BeppoSAX, la Wide Field Camera, adottava una tecnica di produzione delle immagini chiamata maschera codificata.

Funzionamento di una maschera di codifica (immagine da wikimedia)

Funzionamento di una maschera codificata (immagine da wikimedia)

Una maschera codificata è in pratica una lastra metallica – si usa spesso tungsteno – con dei fori in posizioni note posta al di sopra del rivelatore vero e proprio. In questo modo, i fotoni provenienti da una sorgente celeste incontrano ostacoli sul loro cammino e vanno a formare un’ombra caratteristica sul rivelatore. La misura di questa ombra, chiamata in inglese shadowgram, e il fatto che è nota la disposizione dei fori sulla maschera, permette di ricostruire, grazie a dei software molto accurati, la posizione della sorgente nel cielo.

Per amore di precisione, BeppoSAX era dotato di ben due Wide Field Camera gemelle, che osservavano di continuo il cielo. Grazie al loro grande campo di vista, ben 40 gradi quadri di cielo,  erano in grado di controllare simultaneamente un gran numero di sorgenti, determinando per ciascuna di esse la posizione, la variazione temporale del flusso emesso e lo spettro energetico. Inoltre, la misura di posizione era nota con un’accuratezza di pochi minuti d’arco – un minuto d’arco è un sessantesimo di grado – ovvero un grandissimo passo in avanti rispetto alle missioni precedenti. Ma le caratteristiche strumentali delle Wide Field Camera sono state solo uno dei punti di forza della missione, che ne hanno determinato poi lo strepitoso successo. Cruciale fu anche  la capacità del satellite di ripuntare con precisione dopo poche ore le sorgenti ritenute interessanti, in modo da osservarle con gli altri strumenti a bordo del satellite. Fu così che il 28 febbraio 1997, BeppoSAx ripuntò un lampo gamma con il telescopio X a bassa energia, scoprendo l’emissione detta di afterglow del lampo gamma. Ciò permise di fornire alla comunità astronomica una posizione tanto accurata, così che l’astronomo Jan van Paradijs riuscì a osservare la sorgente con un telescopio ottico, misurandone lo spettro, in modo da determinarne per prima volta la distanza: il lampo gamma proveniva da una galassia debole molto distante.

Evoluzione della luminosità nei raggi X di un Gamma Ray Burst osservato da BeppoSax nei primi mesi del 1997: a sinistra l’immagine del 28 febbraio e a destra quella del 3 marzo, l’energia emessa è diminuita di un fattore 100 (foto BeppoSAX Team, ASI, ESA).

Per questa scoperta epocale, che risolveva una controversia trentennale, il gruppo di astronomi di BeppoSAX e Jan van Paradijs  sono stati insigniti nel 1998 del Premio Bruno Rossi dell’American Astronomical Society. Una grande soddisfazione soprattutto per chi aveva creduto per anni nella missione, affrontando diverse difficoltà prima di vederla in orbita, dai costi lievitati di molto rispetto a quelli inizialmente previsti al ritardo del lancio, con il satellite che stazionava in un magazzino in attesa che venisse approntato un lanciatore.

Riassumendo, aveva ragione Paczynski: i lampi gamma sono esplosioni iperenergetiche che avvengono ai confini dell’universo, miliardi di anni luce dalla Terra. Iperegergetiche non è un’esagerazione: per darvi un’idea, un lampo gamma sprigiona un’energia pari a quella di tutta la nostra galassia in 100 anni o, se volete, del Sole per 3000 miliardi di anni! Questa energia è confinata nei pochi secondi del lampo gamma principale, che poi è seguita dall’emissione detta di afterglow a tutte le altre frequenze. Il modello più accreditato per spiegare il fenomeno è quello detto di fireball, modello a palla di fuoco. Si tratta in pratica di un big bang in miniatura, in cui tanta energia è rilasciata in poco tempo e in un volume limitato.  Per figuravelo, immaginate un artista di strada che sputa fuoco dalla bocca: ecco, un lampo gamma non è poi tanto diverso. La pressione interna alla palla di fuoco spinge e accelera il materiale di cui è composta; nel caso dei lampi gamma si tratta di velocità prossime a quelle della luce, per cui il materiale, interagendo con se stesso, produce i raggi gamma “principali”, ossia il lampo gamma vero e proprio. In maniera analoga a quella lanciata dal nostro amico sputafuoco, che si disperde nell’aria, la palla infuocata “cosmica” via via si espande ed entra così in collisione con il mezzo interstellare, rallentando e producendo così la radiazione detta di afterglow. Si ritiene, inoltre, che la palla di fuoco sia originata durante la formazione di un buco nero in seguito al collasso di stelle molto più massicce del Sole o alla coalescenza di due stelle di neutroni***. Dettagli a parte, ancora oggetto di indagine astrofisica, il modello riproduce bene tante caratteristiche osservate dei lampi gamma.    

Degno erede di BeppoSAX  è il satellite italo-americano Swift, in orbita dal 2004, che ha osservato finora oltre 1000 lampi gamma. Swift sfrutta gli stessi punti di forza di BeppoSAX, combinando un rilevatore di raggi X duri a maschera codificata  con grande campo di vista con telescopi a più bassa energia e una grande rapidità di ripuntamento del satellite. A differenza del suo illustre predecessore, Swift è in grado di misurare la posizione dell’afterglow con una precisione dell’ordine dei secondi d’arco, rendendo ancora più semplice individuare la galassia di origine del lampo gamma e permettendo di continuare quello che BeppoSAX ha iniziato 20 anni fa.

BeppoSAX ha segnato, in effetti, la fine di un’era e l’inizio di un’altra nello studio dei lampi gamma di origine cosmica e non solo. Le osservazione del satellite hanno permesso di caratterizzare lo spettro a grande banda di diverse altre classi di sorgenti astrofisiche, e anche in questo Swift ha raccolto l’eredità del suo predecessore.  L’Agenzia Spaziale Italiana festeggia quindi il ventennale del lancio di BeppoSAX con un evento dedicato il 2 maggio, mentre la Società Astronomica Italiana il 3 maggio dedica alla missione un’intera sessione speciale del suo congresso annuale.   

 

Note:  *i tempi di arrivo dei fotoni erano diversi per i diversi satelliti, cosa che implicava che le sorgenti non fossero equidistanti dai satelliti stessi. Questi dati potevano essere utilizzati per risalire alla direzione di provenienza: ciò permise di posizionare le sorgenti a diversi milioni di chilometri di distanza e di escludere Terra e Sole come possibile origine dei lampi gamma.  

**di energia più alta

*** i dati del satellite GRO avevano permesso di stabilire che esiste una dicotomia nella durata dei lampi gamma, che vengono poi divisi in lampi gamma corti e lampi gamma lunghi. I primi vengono associati alla coalescenza di due stelle di neutroni, i secondi al collasso di stelle di grandissima massa.

Bibliografia e letture consigliate:

http://www.brera.inaf.it/ricercapertutti/GRB/storia_grb.html

http://www.asi.it/it/attivita/esplorare-lo-spazio/astrofisica-delle-alte-energie/bepposax

http://www.asdc.asi.it/bepposax/

http://heasarc.nasa.gov/docs/sax/instruments/general_l2.html

http://www.bo.cnr.it/settimana2004/materialedocumentario/IASF-posters/BeppoSAX.pdf

http://www.merate.mi.astro.it/~covino/DVG/GRB/plaGab/plaGab.ppt