E il naufragar m’è dolce in questo mare…

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Ci sono diversi argomenti classici da conversazione alla fermata dell’autobus. Quelli con cui non sbagli mai, che hanno una presa trasversale su tutti gli strati sociali e che permettono a grandi e piccini, timidoni o logorroici incalliti di dire la loro. Il primo fra tutti è il meteo/clima tipo: non ci sono più le mezze stagioni (maquantofacaldo, maquantofafreddo, maquantopiove, manonpiovemaiètuttosecco), cavallo di battaglia, tra l’altro, di Studio Aperto. Un altro intramontabile è: si stava meglio quando si stava peggio, che è anche facilmente adattabile ad altre situazioni tipo coda alla posta/in banca, sala d’attesa dal dottore e parrucchiere. Ce n’è uno che però sta sgomitando per entrare nella pole position delle “quattro chiacchiere cordiali con uno sconosciuto”: la fuga dei cervelli. Ora, non so se sono io che dò troppa confidenza alle vecchiette perchè mi stanno simpatiche, ma appena mi chiedono che lavoro faccio etc etc (curiose che non sono altro) attaccano con la solfa del poverini voi che dovete andarvene dall’Italia, non è giusto e non va bene e blablabla.

La verità, che però non sento dire mai a nessuno, è che lo scienziato è globalmente il mestiere più nomade dei nostri tempi. Lo affermo con cognizione di causa e ora ho anche i dati per dimostrarlo. La dottoressa Franzoni del dipartimento di Management, Economics and Industrial Engineering del Politecnico di Milano lo spiega nel suo Foreign-born scientist: mobility patterns for 16 country su Nature Biotechnology (mica Topolino, impact factor 23.26). In questo studio, con i suoi colleghi, prende in considerazione l’esperienza di 15115 scienziati provenienti dalle 16 nazioni[1] dalle quali, nel 2011, è stato sfornato il 70% di tutti gli articoli pubblicati  nelle seguenti quattro aree scientifiche: biologia, chimica, terra e materiali e scienze ambientali. I risultati dimostrano che gli scienziati tendono a spostarsi e cambiare nazione in tutto il mondo. Gli svizzeri e gli indiani sono quelli che sono più propensi a migrare, mentre i più stanziali sarebbero gli statunitensi. I nostri cugini elvetici sono però anche quelli che percentualmente richiamano piu scienziati da altri paesi: su 100 scienziati che lavorano in svizzera 56.7 sono stranieri. Non male l’importazione anche in Canada (46.9%) e in Australia (44.5%). Gli Stati Uniti d’America sarebbero però la nazione che numericamente richiama il maggior numero di cervelli dal resto del mondo e come primo paese foraggiatore avrebbe la Cina. Molto miseramente, solo 3 stranieri su 100 si avventurano nel Bel Paese per fare della Scienza. Siamo 15esimi in classifica, dopo di noi solo l’India. Ci precedono Giappone (5%), Brasile (7.1%) e Spagna (7.3%).

 Il motivo per il quale uno scienziato fa le valigie e scappa in un altro paese sembra essere uguale per tutti, indipendendemente dalla provenienza o dalla destinazione: l’opportunità di migliorare le proprie prospettive future di carriera. Quindi la possibilità di lavorare in strutture d’eccellenza, con colleghi preparati e in team di ricerca all’avanguardia che permettano di estendere il proprio network di relazioni internazionali. Queste ragioni sarebbero più importanti di miglior salario/benefit sociali/ ragioni familiari/condizioni lavorative. Quando agli scienziati migratori viene domandato se e perchè tornerebbero nel loro paese d’origine la risposta più comune è: dipende dalle opportunità di lavoro. Pragmatici.

In realtà quando hanno intervistato quelli che sono tornati veramente hanno quasi tutti risposto di essere stati spinti da ragioni personali o familiari. Dimostrazione che gli scienziati, oltre ad un cervello impaziente hanno anche un po’ di cuore ;).


[1] Le nazioni sono Australia, Belgio, Brasile, Canada, Danimarca, Francia, Germania, India, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno unito e Stati Uniti D’America. La Cina è stata esclusa per mancanza di riscontri sufficienti nella distribuzione del questionario.