È sempre il caso di parlare di scuola, anche nel pieno delle vacanze estive. Tanto, si sa, l’inizio dell’anno scolastico arriva sempre prima che si possa realizzare che l’estate è finita.

Lo spunto viene dalla mia partecipazione al 66^ Nobel Laureate Meeting di Lindau. Per chi non lo sapesse, ogni anno la cittadina bavarese riunisce in un meeting diversi premi Nobel, centinaia di giovani scienziati, ospiti vari e anche, per l’appunto, giornalisti scientifici. Lo scopo è quello di favorire il confronto attraverso una serie di attività più o meno formali, dalla tradizionale lecture al picnic sul prato. E se, da una parte, per il comunicatore della scienza, si tratta di un’occasione straordinaria per avere la possibilità di intervistare celebri personaggi che hanno legato il proprio nome a scoperte importanti, dall’altra, le ricerche dei giovani scienziati provenienti da tutto il mondo sono una finestra sul futuro della scienza. E suggeriscono anche riflessioni interessanti, nate da conversazioni informali davanti a un succo di mela e una fetta di torta.

Per esempio, trovandosi di fronte a una simile concentrazione di brillanti giovani dediti alla ricerca scientifica viene spontaneo chiedersi che cosa abbia contribuito a far nascere in loro questa passione. E così, senza la pretesa di metter su uno studio scientifico – nonostante il vasto ed eterogeneo campione promettesse bene – ho iniziato a indagare. “Come ti sei avvicinato alla scienza?”, “Come hai scoperto di voler dedicare la tua vita alla ricerca?” sono state tra le domande che ho rivolto più spesso ai giovani scienziati con cui ho avuto il piacere di conversare, ricevendo risposte singolarmente simili, a parte i dettagli.

Tra le testimonianze più intense mi fa piacere richiamare quella di Smitha Narayanamurthy, giovane astrofisica indiana, ricercatrice postdoc al Max Planck Institute for Solar System Research di Gottinga. Con uno sguardo che non dimenticherò facilmente, ha ripercorso con entusiasmo il momento in cui ha capito che la scienza sarebbe stata la sua strada. Insieme al fratello, da ragazzina, aveva costruito un telescopio. Le fatiche dei due astronomi in erba erano state ripagate nel momento in cui, usando lo strumento laboriosamente messo insieme con le loro mani, erano riusciti a vedere gli anelli di Saturno. «Era notte – raccontava – e le nostre grida di gioia svegliarono e spaventarono i nostri genitori. Fui così entusiasta per quella “scoperta” da decidere che avrei cercato per tutta la vita di provare nuovamente quella sensazione.» È il momento gioioso dell’eureka, la soddisfazione di aver capito, unita alla scarica di adrenalina del risultato raggiunto e all’orgoglio di avercela fatta con i propri mezzi.

 

Studenti di un liceo americano alle prese con il "progetto di scienze", scena che abbiamo visto in un sacco di film (immagine dell'esercito USA).

Studenti di un liceo americano alle prese con il “progetto di scienze”, scena che abbiamo visto in un sacco di film (immagine dell’esercito USA).

 

Si parla tanto di motivazione nei riguardi dello studio delle scienze. Se ne parla in Italia, dove la scarsa dimestichezza con le questioni scientifiche è tristemente diffusa, nonostante alcuni segnali positivi. Ma se n’è parlato molto anche a Lindau, e da parte di esperti giunti da tutto il mondo, segno che il problema è avvertito dappertutto. Ma nella semplice riflessione di Smitha c’è forse tutto quello di cui abbiamo bisogno per un’istruzione scientifica motivante ed efficace. C’è quella “didattica del fare”, i cosiddetti “metodi attivi” la cui efficacia è stata dimostrata anche dagli studi scientifici. Senza l’attivo coinvolgimento nella costruzione del telescopio, veicolo di tanti contenuti di fisica e astronomia, la curiosità verso il mondo della scienza sarebbe rimasta quiescente. E senza la gioia dell’eureka, senza l’uso del “metodo euristico” (la radice della parola è proprio la stessa, il verbo greco eurískō, “trovare, scoprire”) la motivazione sarebbe venuta meno.

Nulla di nuovo dal punto di vista della pedagogia: se ne parla da tempo immemorabile. Ma la questione centrale resta una: qual è il luogo naturale in cui, a scuola, si può adoperare il metodo attivo ed euristico per motivare allo studio delle scienze? La risposta è scontata: il laboratorio di fisica, chimica, biologia. Già, proprio quello spazio che nella maggior parte delle scuole viene smantellato per far posto a uffici, archivi, aule. Gli unici laboratori – importantissimi, per carità – verso cui si concentrano gli sforzi e i fondi europei sono quelli di informatica. Forse è anche questa la ragione per la quale tanti studenti italiani considerano le scienze noiose e non conoscono la gioia della scoperta, capace di strappare un urlo in piena notte.

 


Immagine di copertina: giovanissimi studenti al primo contatto con un microscopio (immagine di Blue Power)