«Quali parole devo scrivere per fare la ricerca?» è l’inattesa domanda che arriva da uno studente di scuola superiore che ha 16 anni ed è quello che si definisce un “nativo digitale”. Si trova in laboratorio informatico per lavorare a un progetto scolastico e di fronte alla barra del motore di ricerca più diffuso al mondo è rimasto in imbarazzo, con le dita sospese sopra la tastiera.

Di fronte a una scena di questo tipo si resta interdetti. Tra gli stereotipi più diffusi sulle nuove generazioni c’è, infatti, quello che le vorrebbe altamente competenti con la tecnologia proprio in quanto esposte quotidianamente, fin dalla nascita, alle innovazioni della rivoluzione informatica. Le loro dita, che si muovono agili e velocissime sul touchscreen del telefonino, inviando messaggi nel tempo in cui un adulto non riesce neppure a selezionare un destinatario, sembrano la prova più lampante della loro competenza. Ma “non è tutto oro quello che luce” e forse si può guardare al fenomeno da un altro punto di vista.

All’origine dell’espressione “nativi digitali”, ormai entrata nell’uso, ci sono due articoli scritti da Marc Prensky nel 2001, nei quali l’autore sottolineava come le nuove generazioni fossero da considerarsi dei “madrelingua” relativamente al linguaggio digitale di computer, videogiochi e internet. Questo comporterebbe la necessità di introdurre innovazioni didattiche che si adattino meglio al linguaggio adoperato e compreso da quelli che definisce, per l’appunto, nativi digitali. Nel corso del tempo, altri autori hanno ripreso e integrato la visione di Prensky – per esempio, in Italia, Paolo Ferri – ritenendone validi i presupposti, altri hanno avanzato delle critiche, considerandola semplicistica. In ogni caso, si può osservare come la definizione di nativo digitale riguardi soprattutto il contatto con gli strumenti della tecnologia, per ragioni storiche e sociali. Chi è nato alla fine degli anni ’90 o, ancor più, negli anni 2000, è cresciuto in un mondo permeato dalla telematica: ha guardato cartoni sul PC o sullo smartphone di papà e mamma, ha giocato con il tablet fin dalla prima infanzia, ha imparato a riconoscere l’icona rossa di YouTube ben prima delle lettere dell’alfabeto e così via. Per chi è cresciuto in questa fase storica, lo schermo di un telefonino, di un tablet o di un PC non sono elementi estranei con cui imparare a fare i conti, ma strumenti che fanno parte della quotidianità, con cui è naturale rapportarsi. E se, da una parte, questo sembra indicare come l’uso dei linguaggi digitali nella didattica possa avere una ricaduta positiva sull’apprendimento, dall’altra non implica di per sé una padronanza già raggiunta. Chi ha vissuto la fase di passaggio e si è dovuto sudare il raggiungimento di un’autonomia digitale tende facilmente a sovrastimare le competenze dei nativi, ma è bene sottolineare che la disinvoltura che viene dal contatto quotidiano è qualcosa di diverso dalla reale competenza. Questa presuppone una comprensione ben più profonda di quella che spesso si riscontra nelle nuove generazioni.

Dall’osservatorio privilegiato che mi offre la scuola (faccio l’insegnante), ho avuto modo di raccogliere un bagaglio di aneddoti che ogni anno si fa più ricco e che sembra confermare le considerazioni che emergono da alcune ricerche: le competenze informatiche dei cosiddetti nativi digitali si rivelano spesso al di sotto delle aspettative. Se si prende in esame il quadro delle competenze digitali di Europass, che appare abbastanza completo ed equilibrato in merito alle esigenze di cittadinanza digitale, si scopre come pochi tra i nativi rientrino nella descrizione dell’utente autonomo e, spesso, anche di quello base. Molto scarse sono le competenze nella strutturazione e nell’editing di testi, che sono tra le abilità digitali più “tradizionali”, ma comunque fondamentali. Tralasciando i contenuti e fermandosi al puro aspetto grafico, i testi dattiloscritti da uno studente di scuola superiore – che, in teoria, dovrebbe padroneggiare i programmi di videoscrittura – sono spesso colmi di errori di formattazione. Spazi duplicati, allineamenti maldestri fatti pigiando ripetutamente sulla barra spaziatrice, utilizzo goffo dei font, incapacità di creare una casella di testo, di inserire un grafico, di costruire una tabella. Pochissimi riescono a strutturare in modo accettabile le slide di una presentazione, ancor meno sono quelli che sanno che cosa sia un foglio di calcolo. E l’agilità mostrata dai loro pollici sul telefonino spesso non si replica quando scrivono su una tastiera, fisica o virtuale: qui appaiono più impacciati e pochi adoperano più di due dita per dattiloscrivere. Posti di fronte a un motore di ricerca, spesso non sanno come sfruttarne le potenzialità. Anche operazioni banali, come la ricerca di immagini impostando il filtro dei diritti di utilizzo o della dimensione, appaiono nuove, quasi misteriose. Dal momento che le app di messaggistica e alcune piattaforme social esauriscono buona parte delle loro esigenze di comunicazione, anche l’uso dell’e-mail è decisamente al di sotto degli standard. Quasi nessuno conosce le regole base della comunicazione via e-mail formale e informale: uso corretto dell’oggetto, dei campi “cc” e “ccn”, gli errori da evitare e le ripercussioni anche legali di alcune condotte incaute, etc. Capita di ricevere e-mail in cui il corpo del messaggio è scritto al posto dell’oggetto, oppure messaggi anonimi da indirizzi indecifrabili e anche vagamente ridicoli. Si tratta di svarioni che certamente non verrebbero perdonati nell’ambiente lavorativo.

E poi c’è la lacuna più grave, quella della sicurezza. La diffusione incauta e disinvolta di dati sensibili e informazioni personali sul web, l’ignoranza sui protocolli di sicurezza e sui sistemi di protezione, l’uso di password banali e uguali per più account sono purtroppo frequentissimi tra le nuove generazioni e le espongono al rischio di stalking e cyberbullismo.

E quindi… Houston, abbiamo un problema! La colpa, però, non è dei ragazzi, ma semmai di noi adulti che, forse fidandoci eccessivamente delle loro presunte capacità innate, li abbiamo lasciati soli a gestire il proprio percorso di acquisizione di una piena cittadinanza digitale. Si tratta di un’abilità così importante da non poter essere esclusa dalla scuola dell’obbligo e che va costruita con l’aiuto di tutti i docenti e, per alcuni aspetti specifici, con il supporto di esperti esterni. Paradossalmente, se buona parte delle scuole oggi impiega risorse nell’alfabetizzazione informatica dei docenti, certamente indispensabile, pochissime volte si pensa alle strategie per trasferire queste competenze agli studenti, considerati ipso facto preparatissimi in materia. Eppure, il contatto continuo con i mezzi informatici tipico della generazione dei nativi digitali potrebbe consentire di colmare queste lacune senza eccessivo sforzo, a condizione che la scuola accetti di impegnarsi in questo importante compito. Gli stessi progetti che riguardano la lotta al bullismo e al cyberbullismo potrebbero essere più efficaci se accompagnati da un rinforzo generale delle competenze informatiche che si soffermi anche sul nodo della sicurezza.

E quindi, sì, la generazione touchscreen ha ancora bisogno del supporto degli educatori. Non glielo neghiamo.

 


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