Il percorso della scienza, si sa, può essere lungo e tortuoso. Alcune delle scoperte più importanti del nostro secolo hanno trovato conferma solo molti anni dopo la formulazione di un modello teorico. Qualche esempio? Il neutrino e l’antineutrino, ipotizzati nel 1930 da Pauli, furono osservati solo nel 1956 da Cowan e Reines (e ancora oggi si continua a fare esperimenti su queste particelle); Il Bosone di Higgs: teorizzato nel 1964 è stato finalmente osservato nel 2012; o le onde gravitazionali, teorizzate da Einstein e “viste” nel 2015.
Tuttavia, un aspetto meraviglioso dell’indagare scientifico è che non esistono argomenti a tenuta stagna, e spesso è necessario sconfinare in altre branche della scienza per capire a pieno un fenomeno. Spesso, infatti, capita che le conoscenze e le tecnologie dell’epoca non siano abbastanza mature e si debba aspettare diversi anni (se non secoli) per riuscire a capirci qualcosina in più, e non sempre la spiegazione la si trova nel campo in cui si osserva il fenomeno.
Una delle branche della fisica che più ha regalato grandi scoperte è proprio quella dell’astrofisica, che in realtà è uno dei campi della fisica più versatili, contrariamente a quanto potrebbe sembrare dal nome così specifico. È proprio nello spazio, infatti, che a volte si ricreano quelle condizioni estreme in grado di permettere l’osservazione di certi fenomeni che altrimenti sulla Terra non riusciremmo a osservare.
In questi giorni, un team di astrofisici diretti da Roberto Mignani dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) di Milano ha pubblicato un articolo in cui dichiara di aver osservato un fenomeno di Elettrodinamica Quantistica (QED) teorizzato negli anni ‘30: la birifrangenza del vuoto.
Ma andiamo con ordine. La prima domanda a cui rispondere è: cos’è la QED?
La QED è una teoria quantistica che cerca di spiegare il comportamento (-dinamica) di fotoni e di particelle cariche come elettroni o protoni, all’interno di campi elettromagnetici (elettro-).
La birifrangenza, invece, è un fenomeno ottico che si verifica quando un fascio luminoso incide su di un oggetto con determinate caratteristiche chimico fisiche in grado di dividere il fascio in 2 raggi che si rifrangono in maniera differente. Un esempio classico è quello della calcite, che presenta indici di rifrazione diversi per luce polarizzata in modo diverso.

Un cristallo di calcilte, grazie alla birifrangenza, “sdoppia” l’immagine retrostante (immagine da wikimedia commons)
Se consideriamo che la luce altro non è che un insieme di fotoni, e che il fotone è la particella fondamentale dei campi elettromagnetici, ecco che il collegamento con la QED non è poi tanto assurdo.
Resta da capire cos’è la birifrangenza nel vuoto. Insomma, se è vuoto, cosa bi-rifrange?
Ebbene nella meccanica quantistica anche il vuoto è pieno! Secondo i modelli quantistici, infatti, ci sono sempre particelle e antiparticelle in continua formazione e annichilazione. La birifrangenza nel vuoto era stata prevista circa 80 anni fa a livello microscopico come fenomeno di interazione tra queste particelle cariche del vuoto e un eventuale campo elettromagnetico in grado di provocarne il fenomeno e alterare quella che viene chiamata la polarizzazione della luce, cioè il modo in cui il fascio luminoso “oscilla” rispetto a un piano.
Negli anni 2000 si era ipotizzato che lo stesso effetto sarebbe potuto essere visibile macroscopicamente nei pressi di un oggetto astronomico che presentasse un fortissimo campo magnetico.
Quale oggetto migliore di una stella di Neutroni? Una stella di neutroni, infatti, presenta un campo magnetico superficiale medio di circa 10^13G (gauss, unità di misura del campo magnetico), contro quello di una stella come il sole che è di circa 1G e, tanto per avere un confronto, contro quello della Terra che è dell’ordine di 0.1G.
Il team di Roberto Mignani ha osservato direttamente questo fenomeno sulla stella di neutroni RX J1856.5-3754, una stella di neutroni che fa parte del gruppo delle Magnifiche 7 (M7), oggetti particolari che possiedono uno spettro di emissione totalmente termico, e una componente di raggi X molto più forte rispetto alla componente di luce ottica. Questo fenomeno si è dimostrato una forte complicazione durante gli studi del fenomeno, che è stato osservato tramite un polarizzatore ottico lineare (vedi figura).
Le osservazioni, effettuate nell’estate del 2015 presso il VLT (Very Large Telescope dell’ESO in Cile), hanno mostrato un tasso di polarizzazione della luce emessa dalla stella di circa il 16%, “fornendo così la prima evidenza osservativa degli effetti della QED in un regime di elevato campo magnetico”, così come scrivono nel loro lavoro sul “Monthly Notices of The Royal Astronomical Society” .
Trovare una verifica sperimentale di tale rilevanza non è da poco e siamo felici che, seppure ci sia voluto quasi un secolo, alla fine questa conferma sia arrivata da un gruppo Italiano. Considerando le difficoltà in cui imperversa il settore della ricerca un evento così non può essere che di buon auspicio.
Immagine di copertina: Foud A. Saad by Shutterstock
Quando un fascio di fotoni viene polarizzato resta visibile solo una delle due componenti di “oscillazione” dell’onda luminosa. Nel nostro caso la componente rossa “passa”, mentre la parte blu viene filtrata.
tutto molto interessante
grazie
cb