Iniziamo un viaggio nel concetto di “vuoto”, dai più antichi filosofi a come lo vede la scienza di oggi… partiamo dall’antica Grecia, dove diversi filosofi già avevano intuito l’importanza di questo concetto.

Il “pieno” e il “vuoto” possono considerarsi nozioni comuni. Si può definire come “vuoto” tutto ciò che ha la potenzialità di essere riempito, e quando questa potenzialità si esaurisce abbiamo il “pieno”.

A un primo esame si potrebbe ingenuamente affermare che il movimento è possibile solo in quanto esiste un “vuoto” da colmare in cui i “pieni” possono spostarsi. E questo ragionamento regge se si identifica col vuoto l’aria, come facevano i pitagorici. Ma ovviamente ci si rese presto conto che sulla terra i luoghi cosiddetti vuoti in realtà vuoti non sono, perché anche l’aria ha una sua corposità e materialità.

Esiste dunque il vuoto? Il problema dell’esistenza e della definizione stessa del vuoto ha interessato le più brillanti menti filosofiche e scientifiche del mondo sin dall’antichità. Fino all’esperimento di Torricelli (1644), tale problema includeva, oltre all’ambito scientifico, sia teorico sia sperimentale, aspetti filosofici e teologici, che spesso finivano per prevalere.

Forse il primo a discutere il problema del vuoto, nel V secolo a.C., fu Empedocle, per il quale i corpi fisici non potevano essere perfettamente compatti, altrimenti non sarebbe stato possibile per i fluidi penetrarli; ipotizzò quindi l’esistenza di pori o lacune, che non sarebbero stati però vuoti, ma pieni d’aria o fluidi. Empedocle confutò l’identificazione del vuoto con l’aria con l’esperimento della brocca: l’acqua non può penetrare in una brocca immersa con l’apertura in basso, perché lo impedisce l’aria ivi contenuta. Anche Anassagora, all’incirca nello stesso periodo, tentò di dimostrare la non esistenza del vuoto, osservando che gli otri riempiti d’aria offrono resistenza alla pressione.

Le considerazioni sulla struttura interna della materia espresse da Empedocle, pur non ammettendo l’esistenza del vuoto (e infatti saranno utilizzate da Aristotele a sostegno proprio di questa ipotesi), aprirono la strada agli atomisti. La dottrina atomistica è legata a due nomi: Leucippo (V sec. a.C.) e il suo discepolo Democrito, e descrive la materia come omogenea, immutabile, indistruttibile e discontinua, formata da parti indivisibili (atomi) di forma e grandezza diverse, in continuo movimento e separate dal vuoto assoluto, ovvero lo spazio entro il quale si esercita tale movimento. All’interno del vuoto democriteo ogni atomo si muove di moto rettilineo uniforme fino al successivo urto con altri atomi. Democrito, inoltre, spiegava le differenze di peso macroscopico dei corpi con la diversa mescolanza in essi di atomi e vuoto.

Empedocle, Democrito e Aristotele in tre incisioni rinascimentali (immagini di Wellcome Images)

Di diverso avviso fu Aristotele, che nel IV secolo a.C. espose le sue tesi a riguardo nel quarto libro del suo testo sulla fisica. Si osserva che un corpo lanciato si mantiene in moto; secondo Aristotele la causa del moto non può essere nel corpo, né in chi ha effettuato il lancio, che lo ha abbandonato e non può più agire sul corpo stesso; dev’essere dunque nel mezzo. Secondo una teoria molto criticata anche dai suoi seguaci, il corpo lanciato è spinto continuamente dal mezzo (ad esempio l’aria) che si precipita ad occupare il vuoto lasciato dal proiettile al suo passaggio.

Un corpo sarebbe quindi sempre soggetto a una forza durante il moto e la sua velocità sarebbe direttamente proporzionale a essa e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo. Ne segue che nel vuoto la resistenza sarebbe nulla e la velocità del corpo diverrebbe infinita, cioè il corpo avrebbe il dono dell’ubiquità. Di qui la convinzione aristotelica dell’impossibilità del vuoto («Natura abhorret a vacuo», la natura rifiuta il vuoto), conclusione esattamente opposta a quella degli atomisti, secondo cui il moto sarebbe impossibile nel pieno.

Nella polemica anti-atomista Aristotele porta altri argomenti a sostegno della propria tesi: abusando del principio di ragion sufficiente, afferma che non vi sarebbe alcuna ragione per cui un corpo nel vuoto si dovrebbe fermare in un posto piuttosto che in un altro, perché il vuoto in quanto tale non mostra alcuna differenza; per lo stesso motivo non vi sarebbero ragioni per cui un corpo dovrebbe muoversi in una qualche direzione con una velocità piuttosto che un’altra, perciò nel vuoto dovrebbe essere tutto in quiete. Aristotele, dunque, conclude che il vuoto è una contraddizione logica e non può esistere.

(segue…)

Bibliografia

  • A. Braccesi, Una storia della fisica classica, Zanichelli (1992)
  • J.D. Barrow, The book of nothing, Pantheon Books (2000).
  • H. Genz, K. Heusch, Nothingness – The Science of Empty Space, Perseus (1999)
  • M. Gliozzi, Storia della Fisica, Bollati Boringhieri (2005)

Immagine di copertina: Abstract background with black hole via FastMotion/Shutterstock