Ogni giorno veniamo sottoposte dai pargoli a un’immane gragnola di domande: 288 secondo uno studio inglese, con una media di 23 all’ora, una domanda in più delle 22 cui deve rispondere il premier David Cameron durante il question-time. Con la differenza che le domande per Cameron vertono presumibilmente su politica ed economia, mentre quelle dei bambini toccano anche storia, scienza, arte, filosofia e religione.

Scriveva così Lia Celi sul blog “27ora” di Corriere.it  qualche tempo fa, e a buon diritto, oserei dire.

Se non siete mai stati assaliti dalle domande di uno o più bambini, beh congratulazioni, vi invidio sinceramente. Questo articolo sarà per voi solo una lettura curiosa.

Se invece siete genitori, educatori, insegnanti o qualunque altra cosa che vi renda vittima di vere e proprie aggressioni incontrollate di “perché?”, allora questo articolo è per voi.

Di seguito ho provato a pensare a quali fossero le tre domande scientifiche che potessero incuriosire di più un bambino. Inizialmente mi sono basato sulla mia esperienza, ma poi ho ritenuto che quando Sofia, di 7 anni, mi aveva chiesto di spiegarle la struttura del nucleo atomico e i principali decadimenti radioattivi, si trattasse di una felice (ma destabilizzante!) eccezione alla regola.

Allora ho deciso di partire dalle domande che facevo io a mio padre in giovine età. Ho ristretto il campo alle esperienze sensoriali e alla quotidianità, e ho alzato gli occhi al cielo. Perché è la cosa che più affascina grandi e piccini.

Dal cesto ho estratto le tre domande più semplici da porre ma che, se trattate con precisione, possono diventare tra le più difficili a cui rispondere.

Potrete porre voi i quesiti ai vostri pargoli per stimolare la loro curiosità e il loro spirito critico, o aspettare che siano loro a chiedere; e fare così modesto sfoggio della vostra onniscienza di adulto!

 1-Che cos’è l’arcobaleno? Come si forma?

Tante sono le leggende sulla formazione dell’arcobaleno (arco + baleno, cioè l’arco che compare dopo i lampi): da quella biblica contenuta nella Genesi, che vuole l’arcobaleno come segno di Alleanza tra Dio e Noè dopo il diluvio universale, a svariate leggende orientali che vedono l’arcobaleno come una porta per accedere al paradiso.

Questo fenomeno così colorato e sublime però, non è esattamente la cosa più semplice da spiegare.

Il primo ad avanzare una teoria sulla sua formazione fu il monaco  tedesco Teodorico di Freiberg. Egli fu il primo a dimostrare come la formazione di questo evento sia legato a processi di rifrazione, riflessione e dispersione della luce nelle gocce d’acqua. Per verificare quanto ipotizzato, egli riempì grosse bocce di vetro di acqua, come modello di una goccia gigante, per esaminarne il comportamento dell’interazione con la luce.

Nel XVII secolo, lo scienziato e arcivescovo De Dominis e successivamente Cartesio, ripresero gli studi di Teodorico e ne definirono meglio il meccanismo di formazione.

Ciò che accade è schematizzato in Figura 1.

“Rainbow1”. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons

La luce incide sulla goccia di acqua e si scompone in una parte riflessa ed una trasmessa (o rifratta) verso l’interno.

Una volta nella goccia, la luce “rimbalza” internamente per riflessione, fuoriuscendo scomposta in diversi colori per dispersione.

Storicamente però bisognerà aspettare Newton per cominciare a considerare l’idea che la luce bianca venga scomposta in colori. Fino ad allora si credeva più ad una sorta di “trasmutazione” della luce nelle varie tinte a causa dell’urto.

Inoltre, affinché si verifichi tale fenomeno, il raggio di incidenza deve arrivare secondo un parametro ottimale e il raggio di uscita complessivo dei colori deve avere un angolo medio di circa 42° rispetto alla linea di vista dell’osservatore che, pertanto, deve avere necessariamente il sole alle spalle.

Piccola curiosità: i 7 colori dell’arcobaleno sono 6! Non è una barzelletta, giuro. A combinare il fattaccio fu Newton che, da buon esteta e ricercatore della perfezione, introdusse l’indaco tra il viola e il blu.

Pertanto gli unici colori in cui viene scomposta la luce sono (dall’esterno all’interno dell’arco): rosso, arancione, giallo, verde, blu e violetto.

Il fatto che Newton avesse intravisto l’indaco, probabilmente è da ricollegare a questioni  di simbolismi vari: 7 è il numero perfetto nella Bibbia, è il numero delle note musicali, ma è anche un numero importante nell’alchimia (scienza alla quale Newton si dedicò durante gli ultimi anni della sua vita).

La luce, quindi, non poteva far altro che esprimere la sua “armonia spirituale” con il resto del creato.

(http://arcobaleno.wikispaces.com/Lezione+3+-+La+fisica+dell%27arcobaleno)

 2-Perché il cielo è blu?

Per spiegare le tinte azzurre del cielo dobbiamo far riferimento ad un altro fenomeno ottico: quello della diffusione.

Quando un raggio luminoso entra nell’atmosfera terrestre impatta o, per utilizzare un termine fisico, scattera (dall’inglese scatter – spargimento) contro le particelle costituenti l’aria (azoto, ossigeno ecc …) e, seguendo il modello introdotto da Lord Rayleigh, rimbalza via con una lunghezza d’onda diversa da quella che aveva in partenza.

Proviamo a trattare la questione con un po’ più di pignoleria e in modo leggermente più complicato.

Alla luce, come a qualunque fascio elettromagnetico di particelle, è associato un campo elettrico che porta gli atomi contro i quali scattera ad oscillare secondo un modello classico di oscillatore armonico.

Ne deriva la formazione di un dipolo elettrico parallelo all’onda incidente che ha potenza inversamente proporzionale alla quarta potenza della lunghezza d’onda.

In parole semplici, possiamo immaginare la particella come una pallina da tennis che si trasforma in una piccola palla da Rugby e comincia a saltellare sulle due punte. Più velocemente rimbalza più è piccola la lunghezza d’onda (Figura 2) associata.

Facendo dei calcoli “allucinogeni” viene fuori che la diffusione del colore blu/violetto avviene circa 7 volte di più rispetto alla componente rossastra.

Ovviamente la tinta del blu dipende anche dall’angolo di osservazione e dall’intensità del fascio di luce nell’atmosfera. È questo il motivo per cui il cielo non appare blu ovunque allo stesso modo.

Guardando il cielo in prossimità del sole a mezzo giorno (evitate di farlo, per favore!) il colore tenderà ad essere giallastro/biancastro. Allo stesso modo, e proprio a causa dell’assenza di atmosfera, Samanta Cristoforetti vede il cielo nero nello spazio.

A questo punto domande come: perché al crepuscolo il cielo appare rossastro?  e perché quando piove il cielo è grigiastro?, sono facilmente intuibili.

Figura 2

Figura 2

 

3-Perché, se ci sono tante stelle luminose, il cielo notturno è così nero?

La questione, tutt’altro che banale, è meglio conosciuta con il nome di “paradosso di Olbers”, dal nome del fisico che nel 1826 provò a dare una soluzione al problema.

Il paradosso sorge nel momento in cui calcoliamo la luminosità complessiva di tutte le stelle nel cielo di tutte le galassie. Il risultato ci fornisce un valore, visto dalla Terra, maggiore della luminosità complessiva del sole. Questo vorrebbe dire che di notte … dovrebbe esserci più luce che di giorno!

L’interpretazione di Olbers era legata all’assorbimento luminoso da parte delle polveri interstellari. Purtroppo la risposta non è così semplice e bisogna aspettare il 1929 e le teorie cosmologiche avanzate da Edwin Hubble per avere una giustificazione legittima.

La prima spiegazione è legata all’assunzione di un universo in  continua espansione: le stelle e le galassie si allontanano le une dalle altre e, quindi, anche da noi (come se fossimo tanti puntini disegnati sulla superficie di un palloncino che si gonfia). Ciò provoca una riduzione della luce che riceviamo per effetto Doppler (lo stesso effetto che porta alla riduzione del suono della sirena di un’ambulanza che ci passa accanto sfrecciando).

Con la luce il fenomeno è analogo e gli astrofisici chiamano questo effetto con il nome di red shift gravitazionale. Quello che si verifica è riassunto in figura 3. Una sorgente luminosa che si allontana da noi viene registrata con una lunghezza d’onda maggiore, e quindi con uno spostamento (shift) verso il rosso (red). Le stelle più lontane risentono maggiormente di questo fenomeno emettendo luce nella zona infrarossa o delle microonde, che i nostri occhi non sono in grado di percepire.

Figura 3: Il cielo stellato in West Virginia non è più luminoso di quello ad Abbiategrasso (MI). Colpa del Paradosso di Olbers!

Il secondo motivo tira in ballo la relatività di Einstein e, in particolare, il concetto della dilatazione dei tempi. Per farla semplice prendiamo due amici, Pino e Pina, entrambi con un bel Rolex da polso. Pino resta seduto a casa a poltrire, mentre Pina va a correre ad una velocità prossima alla velocità della luce (altro che Bolt!).

Pino guarda il suo orologio e vede Pina tornare, ad esempio, dopo 30 minuti; mentre Pina ha cronometrato, diciamo, 20 minuti di corsa.

Questo perché chi resta a casa a poltrire ha i ticchettii dell’orologio “più lenti” rispetto a chi si muove.

Nel nostro caso, la luce ha bisogno di tempo per arrivare ad illuminare la nostra superficie terrestre.

Avendo assunto che le stelle tendono ad allontanarsi da noi, il nostro pianeta (che da ora in poi potrete liberamente chiamare signor Pino) riceverà luce durante un intervallo di tempo maggiore rispetto al tempo misurato nella stella (o signorina Pina), o nella galassia di appartenenza delle sorgenti luminose. Alterando così la quantità di luce ricevuta sulla Terra.

Ormai è chiaro, la strategia consigliata è: stendete i bambini con una risposta scientificamente accurata ma non troppo matematica e poi vediamo se continuano imperterriti a chiedere “why?”.

E se lo fanno …  rassegnatevi, da grandi saranno scienziati!