Trent’anni fa, una mattina di primavera, una notizia drammatica e preoccupante iniziò a circolare per l’Europa. Un improvviso aumento delle radiazioni era stato misurato sugli abiti dei lavoratori di una centrale nucleare in Svezia, facendo partire una serie di controlli. Nelle stesse ore, anche in Finlandia era stato rilevato un aumento della radioattività ambientale, ma a causa di uno sciopero la notizia non aveva ancora avuto modo di diffondersi. I tecnici svedesi non impiegarono molto a rendersi conto che non c’erano perdite nel loro impianto, e nessuna notizia era arrivata da nessun altro paese dell’Europa occidentale: gli occhi di tutti si rivolsero allora verso l’Unione Sovietica. Era il 28 aprile 1986 e la nostra percezione delle centrali nucleari stava per cambiare per sempre.
Tre giorni prima, nella centrale di Chernobyl, il reattore numero 4 era stato portato al minimo di potenza per effettuare dei test. In un reattore nucleare una certa quantità di materiale fissile, uranio-235 o plutonio-239, viene assemblata con altri materiali per far sì che i neutroni prodotti in una fissione ne generino delle altre. L’inserimento di barre di materiali in grado di assorbire neutroni, come boro o cadmio, permette di accelerare o rallentare le reazioni, aumentando o diminuendo la quantità di calore che viene prodotta. Questo calore è rimosso dal reattore con dell’acqua o altri fluidi e utilizzato per produrre vapore che, a sua volta, fa girare delle turbine che producono corrente elettrica.
Ci sono diversi modelli di reattori: quello di Chernobyl era ottimizzato per produrre grandi quantità di plutonio per bombe, che doveva anche essere estratto in modo relativamente semplice. Si trattava quindi di un reattore molto grande, contenuto in una struttura relativamente leggera. Il combustibile, in forma di barre, era inserito in una matrice di grafite, che aveva il compito di rallentare i neutroni per renderli più efficaci nel produrre nuove reazioni, e acqua, che fungeva da fluido di raffreddamento. Per “accendere” il reattore, o, come si dice in gergo, renderlo critico, sarebbe bastato alzare le barre di assorbitori di neutroni e osservare l’aumento di potenza termica.
L’idea era di effettuare un test nella giornata del 25 aprile, ma un problema a un’altra centrale aveva richiesto il mantenimento della produzione di energia elettrica fino a tarda sera. Solo alle 23 i tecnici ebbero l’autorizzazione a portare il reattore al minimo. Gli stessi tecnici che erano in turno dal mattino. Il primo problema fu che, invece di stabilizzarsi intorno al 20% della potenza nominale, la produzione di energia del reattore crollò fino a 1%, a causa del prolungamento delle operazioni che avevano causato un aumento della concentrazione di xenon-135: questo materiale assorbe i neutroni, provocando quello che si chiama “avvelenamento” del reattore. Tra gli effetti collaterali di questo fenomeno c’è una riduzione temporanea della potenza prodotta, che poi riaumenta di colpo quando la concentrazione di xenon-135 diminuisce. Per ripartire dalle condizioni previste dalla procedura, i tecnici estrassero nuovamente gli assorbitori di neutroni, per far risalire la potenza, bypassando tutte le procedure automatiche. Mezz’ora dopo la mezzanotte i tecnici stavano ancora cercando di riportarsi nelle condizioni di potenza per effettuare i loro test. Il tutto in modo sempre più empirico, aumentando e diminuendo il flusso di acqua nel reattore, alzando e abbassando le barre di regolazione, preparando tutta la centrale a passare dalla produzione nucleare ai generatori diesel di emergenza.
All’1:23, finalmente, l’esperimento poté avere inizio. Il flusso di vapore dal reattore alle turbine fu interrotto e i generatori diesel furono accesi. In poche decine di secondi, la potenza delle pompe che garantivano il raffreddamento del reattore calò in modo drastico, provocando un riscaldamento del nocciolo. L’acqua di raffreddamento iniziò a evaporare, provocando un ulteriore aumento di potenza: i reattori di quel tipo, infatti, a bassa potenza hanno un “coefficiente di vuoto positivo”, cioè, se manca il fluido di raffreddamento, diventano più efficienti. Dal punto di vista della sicurezza è un problema, ma dal punto di vista della facilità di accesso al combustibile era considerata una scelta molto conveniente. Il sistema di controllo automatico cercò di contrastare questo aumento di potenza, ma la maggior parte delle barre di assorbitore erano state estratte manualmente e potevano solo essere manovrate manualmente. All’1:23:40 fu attivato lo spegnimento di emergenza del reattore, il cosiddetto SCRAM. Qualcosa non funzionò, la potenza era già troppo elevata, alcune barre si ruppero e il sistema di inceppò.

Il pulsante di spegnimento di emergenza SCRAM del primo reattore costruito negli USA. Anche se la storia dei reattori è recente, si è persa memoria del significato dell’acronimo SCRAM: tuttavia lo si continua a usare nella stragrande maggioranza degli impianti (foto da wikimedia commons).
Nel giro di pochi secondi, la potenza del reattore continuò a crescere, fino a 10 volte quella nominale. Tutta l’acqua di raffreddamento si trasformò in vapore, facendo saltare in aria la struttura di contenimento del reattore, del peso di molte centinaia di tonnellate. Insieme alla struttura, furono proiettati in cielo pezzi di grafite, combustibile, scorie nucleari, di tutto. Il giorno successivo, con colpevole ritardo, tutta la zona fu evacuata. Nelle settimane successive la “nube radioattiva” coprì buona parte dell’Europa, provocando enormi preoccupazioni anche da noi in Italia. Oggi, trent’anni dopo, la città più vicina all’impianto, Pripyat, è ancora deserta e giace al centro di una delle “zone di esclusione” che sono state create intorno ai siti dei più gravi incidenti nucleari della storia.
La ricostruzione degli eventi non è ancora del tutto chiara, e probabilmente non lo sarà mai. Tutto l’incidente si è svolto in meno di un minuto e, tra la comprensibile riluttanza delle autorità a diffondere informazioni e la morte quasi immediata, in seguito alle radiazioni ricevute, di svariati dei protagonisti di quella notte, è probabile che dovremo accontentarci di quello che siamo riusciti a sapere finora. Indipendentemente dalle eventuali cause tecniche di un incidente del genere, comunque, c’è una considerazione che dovremmo fare: l’errore umano è sempre possibile: l’estrazione manuale delle barre, l’aver sottovalutato il coefficiente di vuoto positivo, l’aver fatto il test di notte quando erano tutti stanchi, tutto ha contribuito in qualche modo a creare le condizioni per generare il più grave incidente nucleare della storia.
Immagine di copertina: il reattore numero 4 nel suo sarcofago di cemento armato e il monumento ai caduti (immagine di Tiia Monto)
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