Sono ancora molti i dubbi sulla suscettibilità dei bambini al COVID-19. Partendo da un documento dell’ECDC cerchiamo di fare chiarezza sui rischi legati alla riapertura delle scuole.

I bambini non sono una popolazione a rischio. È una delle poche cose che sappiamo fin dall’inizio della pandemia di COVID-19. Da qui in poi inizia però una serie di incertezze: 

  • Perché?
  • I bambini si ammalano ma non sviluppano sintomi o non si ammalano proprio?
  • Sono infettivi? Ovvero trasmettono il virus come gli adulti?
  • La trasmissione in ambito scolastico gioca un ruolo? E di conseguenza cosa succederà alla riapertura delle scuole?

Chiare risposte a queste domande non ci sono, ma basandoci sui lavori scientifici disponibili e soprattutto su un documento dedicato all’argomento redatto dall’European Center for Disease Control (ECDC) cerchiamo di rispondere a queste domande chiave.

La ragione per cui i bambini hanno sintomi lievi non è ancora chiara, ma le due ipotesi più accreditate, a oggi, sono che l’immunità innata, ovvero la prima linea di difesa del nostro corpo, non specifica e volta semplicemente a riconoscere la presenza di patogeni ma non il tipo, sia più attiva in questa fascia di età, e che quindi i bambini siano più pronti a rispondere all’infezione e a prevenire l’insorgenza dei sintomi più gravi. La seconda ipotesi, supportata da recenti studi, è che i linfociti T di individui che hanno avuto un raffreddore causato da uno dei coronavirus benigni, possano riconoscere anche il SARS-CoV2. I coronavirus del raffreddore e il SARS-CoV2 infatti sono “cugini” e, come tali, hanno porzioni del genoma simili. Quale sia l’effetto in vivo è però ancora da verificare, ma è possibile che il fatto che in età pediatrica i raffreddori siano più comuni che in età adulta giochi un ruolo. Oltre a queste ipotesi, ci sono anche altri lavori in cui si vede una diversa distribuzione del recettore del virus, ACE-2, che sembrerebbe aumentare con l’età.

La seconda domanda si ricollega alla prima, se pensiamo che l’abilità dei bambini sia soprattutto il controllo dell’infezione tramite il sistema immunitario, ne consegue che i bambini probabilmente si ammalano ma riescono ad arginare efficacemente l’infezione. A sostegno di questa ipotesi ci sono gli studi sierologici in vari paesi in cui i risultati mostrano che le percentuali di bambini positivi al coronavirus non sono così diverse da quelle degli adulti, a testimonianza del fatto che sono stati esposti al virus e hanno sviluppato una risposta immunitaria. Un altro fattore a sostegno del fatto che i bambini si ammalano è anche legato all’incremento di casi simili alla sindrome di Kawasaki. Casi di questa patologia infiammatoria pediatrica hanno visto un picco di casi ritardato di qualche settimana rispetto al picco delle infezioni di SARS-CoV2 in bambini non positivi al tampone per il coronavirus ma positivi al test sierologico.

Più complicato è rispondere alla domanda sulla trasmissione. Abbiamo a disposizione alcuni studi, ma per prima cosa dobbiamo separare gli individui sintomatici dagli asintomatici. Nei bambini sintomatici, sui cui ovviamente abbiamo più dati, dato che nel picco della pandemia i tamponi venivano fatti quasi esclusivamente a pazienti sintomatici, i dati convergono sulla presenza di quantità di rna virale nei tamponi simile agli adulti, di conseguenza simili capacità infettive. Sugli asintomatici non abbiamo però dati solidi a disposizione. Possiamo solo estrapolare qualche evidenza da alcuni casi in cui bambini infetti hanno frequentato ambienti scolastici e, generalmente, non si sono osservati casi di trasmissione secondaria. 

Nella maggior parte dei paesi europei le scuole hanno chiuso durante il picco della pandemia, ma in alcuni Stati, come in Svezia o in Islanda, le scuole elementari sono sempre rimaste aperte, mentre in altri, come Danimarca e Olanda, hanno riaperto a fine aprile e maggio. Quello che si osserva è che, in questi stati, non sembrano esserci stati picchi di trasmissione tra i bambini in concomitanza con l’apertura o la riapertura delle scuole. Un altro fattore importante da considerare è che, attualmente, i casi di trasmissione pediatrica sono legati soprattutto all’ambiente familiare e che anche per gli insegnanti le scuole non sembrano essere associate a fattori di rischio. 

È importante sottolineare, però, che ci sono anche rapporti che vanno in senso opposto, come un insieme di casi in una scuola in Israele in seguito alla riapertura, o un numero alto di infezioni in bambini in un centro estivo negli Stati Uniti. 

 Per queste ragioni è importante adottare, non solo in ambiente scolastico, le dovute misure di prevenzione: l’utilizzo di mascherine quando il distanziamento non è possibile (per esempio all’ingresso e all’uscita dalle aule, o durante la ricreazione), il distanziamento fisico nelle aule, l’igiene delle mani e delle superfici, e non andare a scuola se si hanno sintomi respiratori anche lievi. In aggiunta bisogna essere sicuri di poter identificare e testare rapidamente gli alunni in modo tale che non si creino nuovi cluster di infezione. 

In questa valutazione, non possiamo dimenticare che in questioni di salute pubblica si deve cercare il miglior compromesso tra il rischio e il beneficio per la comunità. E la scuola non ha un ruolo soltanto nell’istruzione, ma anche nel benessere dei bambini.

Per saperne di più:

https://pediatrics.aappublications.org/content/146/2/e2020004879?fbclid=IwAR2DdP0XavCY656HvFTyf6Xma5Egb_XQPzLNRyyy82CM_HaEo6fEmq86UeE

https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/69/wr/mm6931e1.htm?s_cid=mm6931e1_w

https://wwwnc.cdc.gov/eid/article/26/10/20-2403_article

https://www.nature.com/articles/s41390-020-1065-5

https://www.nejm.org/doi/pdf/10.1056/nejmc2005073

https://www.jpeds.com/action/showPdf?pii=S0022-3476%2820%2931023-4

 

Immagine di copertina: COVID19 via CKA/Shutterstock