Al giorno d’oggi è impensabile comprare un telefono cellulare che non sia dotato di fotocamera, ma in realtà, sebbene ogni smartphone ne abbia almeno una, quello che queste fotocamere sono in grado di fare varia fortemente da un modello all’altro. Avrete sicuramente notato che con alcuni smartphone è facile ottenere immagini di buona qualità anche in condizioni di scarsa luce, altre invece registrano video in altissima risoluzione, altre ancora offrono la possibilità di correggere il tremolio e così via. I diversi modelli utilizzano fotocamere diverse, che hanno in comune il fatto di avere una lente, un sensore e un software di gestione. La combinazione di questi tre elementi è quella che incide sul risultato finale, ovvero se la nostra foto sarà bella o no.

I cellulari moderni utilizzano principalmente sensori basati sulla tecnologia CMOS, mentre i primi modelli sfruttavano sensori noti come CCD – charge-coupled device. Nonostante siano stati tra i primissimi a utilizzare questa tecnologia, gli astronomi non hanno scoperto i CCD: infatti, essi vennero realizzati “per caso” ai Bell Labs da William Boyle e George Smith, che per questa scoperta hanno ricevuto nel 2009 il premio Nobel per la fisica. Boyle e Smith a fine 1969 iniziarono a lavorare su un prototipo descritto in un articolo l’anno seguente: all’epoca loro stavano studiando nuovi dispositivi di memorizzazione e il CCD venne presentato come l’analogo digitale della memoria a bolle.

Boyle e Smith provano la prima fotocamera CCD da loro creata ai Bell Labs (reprinted with permission of Nokia Corporation)

I primi prototipi realizzati funzionavano in maniera diversa nel caso fossero colpiti o meno dalla luce, in pratica Boyle e Smith avevano prodotto dei dispositivi veramente sensibili alla luce. Tuttavia, i primi CCD sarebbero stati totalmente inutili in una fotocamera, perché erano affetti da tutta una serie di difetti. Gli astronomi, sempre alla caccia di modi per misurare la luce proveniente dagli oggetti celesti più deboli e lontani, si resero conto subito del potenziale insito in questi dispositivi e decisero di darsi da fare per potenziarli e migliorarli. Nel 1973 la Texas Instruments Corporation iniziò quindi una fruttuosa collaborazione con il JPL della NASA per sviluppare CCD per missioni spaziali. Nel 1976 che per la prima volta fu usato il prototipo realizzato durante questo progetto per ottenere le prime immagini astronomiche digitali,  fotografando Giove, Saturno e Urano con il telescopio di 1.5 metri di Monte Lemmon vicino Tucson, Arizona.

Il progetto di sviluppo aveva permesso di realizzare CCD di seconda generazione, migliorando l’efficienza quantica, ovvero la capacità di convertire ogni singolo fotone in un elettrone “leggibile” dall’elettronica accoppiata al sensore, dei dispositivi, realizzando sensori più grandi, contemporaneamente riducendo il rumore dell’elettronica e migliorando la cosiddetta “cosmetica” dell’immagine, ovvero come “mascherare” la presenza di pixel non funzionanti nel dispositivo. I risultati furono così promettenti che di lì a qualche anno il CCD soppiantò la pellicola fotografica nelle applicazioni astronomiche. La NASA stessa è considerata la principale responsabile della popolarità del CCD per averli impiegati nel telescopio spaziale Hubble.

Negli ultimi anni però i dispositivi CMOS stanno sostituendo ovunque i CCD nei dispositivi mobili per il loro costo inferiore e consumo energetico più basso, sebbene la tecnologia CCD offra tuttora immagini migliori e sia preferibile in alcune applicazioni, per esempio nel vicino infrarosso. I CMOS non sono molto diffusi in astronomia, anche se sono allo studio diversi progetti per il loro impiego in missioni spaziali e, con un occhio alla storia passata, possiamo ragionevolmente ipotizzare che ogni eventuale sviluppo di questi sensori in ambito astronomico avrà anche un ritorno nella nostra quotidianità.

 


Immagine di copertina: Katsuhiro by Shutterstock