La conoscenza della genetica e della biologia molecolare hanno aperto nuovi orizzonti per lo sviluppo di applicazioni biotecnologiche in medicina e in agricoltura. La potenza degli strumenti oggi disponibili ha destato non poche preoccupazioni sia di tipo etico che legate alla salute dell’uomo e dell’ambiente. Il tema OGM è uno di quelli su cui si scaldano gli animi, che vede schierati da un lato l’opinione pubblica, dall’altro buona parte della comunità scientifica. Gli organi istituzionali hanno preso le parti dell’una o dell’altra fazione, ma in Europa e in particolare in Italia, la legislazione è chiara: gli OGM non si coltivano. Qui sorge però un problema di definizione: cos’è considerato OGM e cosa no? Una Direttiva europea del 2001 ne dà una definizione, e quindi determina cosa si possa coltivare e cosa invece sia proibito, unicamente sulla base delle tecniche utilizzate per produrre una certa varietà e non in base alle caratteristiche finali del prodotto. Come vedremo a breve, con il progredire delle conoscenze e l’introduzione di nuove tecniche di ingegneria genetica, questo approccio legislativo si rivela vetusto e poco efficace.

Mutagenesi. Una tecnica nota da decenni per modificare geneticamente le piante è quella di provocare mutazioni nel DNA. Questo processo richiede trattamenti con sostanze chimiche mutagene o con forti dosi di radiazioni che danneggiano il DNA in punti casuali. Le cellule vegetali, come tutte le altre, hanno degli attenti meccanismi di riparazione (il cui studio è valso il premio Nobel per la chimica di quest’anno a Lindahl, Modrich e Sancar), che intervengono non appena incontrano un danno: la struttura della doppia elica di DNA viene ripristinata, ma a volte la sequenza di lettere che la compongono non corrisponde a quella originale, precedente al danno e alla riparazione. Queste piccole mutazioni causano malfunzionamenti dei geni colpiti e possono tradursi in tratti agronomici interessanti. Essendo però un processo casuale, che non colpisce un particolare gene in modo specifico ma tutto il genoma indiscriminatamente, migliaia di piante devono essere trattate per poterne selezionare almeno una in cui, per caso, sia comparso un tratto interessante.

Transgenesi. Un approccio più moderno, raffinato e specifico consiste nel trasferire all’interno di una pianta un preciso frammento di DNA, che codifica per il gene desiderato. Questo gene può provenire da orgnismi della stessa specie (in questo caso si parla di cis-genesi) o da specie diverse (trans-genesi). Il risultato è una pianta che esprime un unico gene in più (quello che abbiamo scelto), che presenta i tratti desiderati e che può essere controllata per verificarne la sicurezza per l’alimentazione e per l’ambiente.

Una persona che non fosse al corrente del dibattito in corso sugli OGM su tematiche etiche, economiche e politiche, potrebbe rimanere sorpresa nel constatare che varietà della seconda categoria sono bandite, mentre quelle della prima, le ‘mutagenizzate’, non sono considerate OGM dalla legislazione europea e finiscono ogni giorno sulle nostre tavole sottoforma, per esempio, di farina di grano delle varietà ottenute dal celebre grano Creso, ampiamente coltivate in Italia e nel mondo. La distinzione si basa sul fatto che le mutazioni possono avvenire anche in natura, seppur con frequenze molto basse, mentre il trasferimento di materiale genetico tra diversi organismi è molto più raro (anche se la patata dolce di cui abbiamo parlato in un post precedente è un esempio del fatto che possa avvenire in natura). Le piante transgeniche sono distinguibili dalle altre anche per mezzo di analisi di laboratorio che rivelano la presenza di geni non appartenenti a quella specie; in questo modo, i vegetali destinati all’alimentazione umana che provengono da paesi in cui la coltivazione di OGM è autorizzata, possono essere controllati per verificare che siano OGM-free prima di essere importati in Europa.

Genome editing. La questione si complica con l’avvento di nuove tecniche che vanno sotto il nome di genome editing ovvero ‘modifiche del genoma’. Il principio è simile a quello della mutagenesi: si produce un danno al DNA –un taglio– e i meccanismi cellulari che lo riparano commettono dei piccoli errori e introducono mutazioni. Il compito di danneggiare il DNA non è affidato ad agenti chimici o fisici, ma a specifiche proteine che ‘leggono’ tutto il genoma e tagliano nel punto desiderato, attraverso un meccanismo di riconoscimento della sequenza di DNA. Esistono diversi tipi di ‘forbici molecolari’, ma quelle più in voga al momento per la versatilità e facilità di utilizzo si chiamano CRISPR-Cas, ispirate a un meccanismo batterico di difesa contro i virus. È un sistema fatto da due componenti: un RNA guida, che indica precisamente il punto in cui il DNA va tagliato, e una proteina, effettivamente responsabile del taglio. Fino a oggi, l’approccio utilizzato è quello di inserire all’interno della pianta da modificare un transgene che codifichi per l’RNA guida e la proteina, lasciando che sia la pianta stessa a sintetizzare le forbici molecolari. Avvenuto il taglio e la riparazione, la mutazione si fissa stabilmente nel genoma e il transgene può essere eliminato nelle generazioni successive. A questo punto nemmeno il più esperto genetista sarebbe in grado di dire se la mutazione è stata ottenuta con il sistema CRISPR-Cas o se è stata prodotta da fenomeni naturali.

Recentemente, un gruppo di ricerca coreano ha dimostrato che è possibile utilizzare queste forbici molecolari senza doverne inserire il gene nelle piante, sintetizzando le proteine e la guida in laboratorio e applicandoli dall’esterno. Le piante così ottenute portano la mutazione desiderata, ma non sono transgeniche in nessuna fase della loro produzione e sono indistinguibili da piante che hanno naturalmente la stessa mutazione.

Innovazione, commercio e regolamentazione. L’Europa sta temporeggiando prima di prendere una decisione riguardo al tipo di regole da applicare alle piante ottenute in questo modo. Vanno considerate OGM oppure no?
Il genome editing non avviene in natura, ma se una pianta non contiene DNA esogeno, e la modifica subita è indistinguibile da una mutazione naturale, una risposta logica a questa domanda potrebbe essere no. Questa almeno è la conclusione a cui sono giunti negli Stati Uniti, dove è stato approvato l’uso in agricoltura di diverse varietà ottenute con queste tecniche. Si pone, quindi, il problema delle norme da applicare per disciplinare i rapporti commerciali di importazione in l’Europa da paesi dove il genome editing è autorizzato. Visto che non c’è alcun modo di determinare con certezza se queste piante siano ottenute con tecniche di genome editing, se l’Unione europea scegliesse di classificarle come OGM e quindi proibirne coltivazione e importazione si troverebbe davanti a un dilemma: accantonare la politica di tolleranza zero sugli OGM e credere nella buona fede degli esportatori che promettono un prodotto OGM-free che non può essere verificato, oppure proibire del tutto le importazioni di beni alimentari dai paesi che autorizzano il genome editing?
Questa e altre contraddizioni sono frutto di una normativa che non guarda alla qualità e alla sicurezza dei prodotti finali, ma solo alle procedure. Staremo a vedere.

 

Fonti:
– Jones, H. (2015) Regulatory uncertainty over genome editing. Nature Plants, 1(1), 14011. DOI: 10.1038/NPLANTS.2014.11
– Woo, J., Kim, J., Kwon, S., Corvalán, C., Cho, S., Kim, H., Kim, S., Kim, S., Choe, S., & Kim, J. (2015) DNA-free genome editing in plants with preassembled CRISPR-Cas9 ribonucleoproteins. Nature Biotechnology. DOI: 10.1038/nbt.3389
– Wolt, J, Wang, K., & Yang, B. (2015) The Regulatory Status of Genome-edited Crops. Plant Biotechnology Journal. DOI: 10.1111/pbi.12444

Foto di copertina di Alice Breda