Era il febbraio del 1872, e un medico di appena 22 anni illustrava una rara malattia alla Meigs & Mason Academy di Middleport, in Ohio. Non era il primo, ma il suo resoconto colpì gli astanti per l’accuratezza e il realismo. Si trattava di una còrea, un nome di origine greca (choreia, danza) che descriveva gli spasmi e i movimenti involontari che colpivano il volto e gli arti dei pazienti in modo progressivo.

Tre erano le caratteristiche principali osservate dal giovane George Huntington esaminando la storia medica di alcune generazioni di una famiglia. La prima era il carattere ereditario, per cui “qualora uno o entrambi i genitori hanno mostrato manifestazioni della malattia, e in particolare quando tali manifestazioni sono state di natura grave, uno o più dei loro figli quasi invariabilmente saranno affetti dalla malattia, se vivono fino all’età adulta. Ma se per caso questi figli trascorrono la vita senza [malattia], la linea è interrotta e i nipoti e pronipoti dei pazienti originari possono stare sicuri di essere liberi dalla malattia”. La seconda era una tendenza alla follia e al suicidio; la terza era il manifestarsi come malattia grave solo in età adulta.

Su quest’ultimo punto, Huntington si sbagliava; esistono alcuni casi, rari ma molto gravi, che insorgono fino a prima dei dieci anni di età. Probabilmente l’errore era dovuto al numero relativamente scarso di soggetti osservati, ma anche al fatto che nelle forme giovanili di questa malattia il segno caratteristico, ossia il “balletto” creato dai movimenti involontari, è meno preponderante rispetto alle manifestazioni psicotiche. Per questo motivo oggi la malattia non è più nota con il suo nome originario di “Còrea di Huntington”, ma semplicemente come morbo di Huntington.

Verso la fine del XIX secolo, la malattia era ormai nota a livello mondiale. Un aiuto nella comprensione del meccanismo di trasmissione ereditaria venne dalla riscoperta delle leggi dell’ereditarietà di Mendel. Il morbo di Huntington è un esempio di carattere dominante: se un genitore è affetto dalla malattia, i figli avranno il 50% di probabilità di mostrare i sintomi, indipendentemente dal genere. Secondo le leggi della genetica, questo significa che delle due copie di geni che codificano per ciascun carattere, ne basta uno che contenga un gene malato perché la malattia si manifesti; non esistono dunque portatori sani di morbo di Huntington.

Albero genealogico della trasmissione del morbo di Huntington. Se in uno dei due genitori è presente un gene con la mutazione per il morbo, i figli avranno il 50% di probabilità di ereditare la malattia.

Il gene responsabile del morbo è stato il primo, tra quelli responsabili di una malattia, a essere mappato grazie al Progetto Genoma Umano, nel 1983. È localizzato sul braccio corto del cromosoma 4, in posizione 16.3. Questo gene è polimorfico, ossia si presenta in natura con un certo numero di varianti; nello specifico, contiene una tripletta di basi azotate CAG (citosina – adenina – guanina) che può ripetersi un numero variabile di volte. Il gene nel suo complesso codifica una proteina chiamata huntingtina, e la tripletta CAG rappresenta il codice genetico per l’aminoacido glutammina: in sostanza, più ripetizioni della tripletta significano produzione di huntingtina ricca di glutammina.

Finché il numero di ripetizioni della tripletta CAG resta sotto alle 36, l’huntingtina viene prodotta in forma normale o pressoché normale. Il ruolo e il meccanismo di azione di questa proteina non sono stati chiariti fino in fondo; si trova in molti tessuti del corpo, ma gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo, nel funzionamento e nella sopravvivenza delle cellule del sistema nervoso centrale.

Se però il numero di ripetizioni supera le 36, l’huntingtina tende a creare legami con altre molecole di huntingtina o di altre proteine. Si formano dunque degli aggregati che, accumulandosi, interferiscono con la normale funzione delle cellule in cui sono presenti. I danni sono più evidenti negli organi in cui l’huntingtina è particolarmente abbondante, e tra questi vi è il cervello. In particolare, il corpo striato è particolarmente vulnerabile: si tratta di una componente cerebrale coinvolta nella pianificazione e nella modulazione dell’intensità con cui vengono eseguiti i movimenti volontari, ma anche in numerosi processi cognitivi e al controllo inibitorio. Tutti questi aspetti risultano profondamente compromessi dal morbo di Huntington.

In rosso, il corpo striato. Immagini generate da Life Science Databases (LSDB), prese dal sito Anatomography. Licenza CC BY-SA 2.1 jp

La malattia è terribile per molti aspetti. Il corpo, in preda agli spasmi, diventa sempre più incontrollabile, e la personalità cambia in peggio: sintomi psichiatrici frequenti includono apatia, depressione, irritabilità, ansia e manifestazioni psicotiche anche violente. Non esistono cure, se non sintomatiche e palliative, che comportano l’assunzione di un gran numero di farmaci e comunque raramente riescono a contenere tutti i sintomi in modo efficace. La malattia progredisce in modo inesorabile; la prognosi non supera i vent’anni e circa un paziente su quindici si toglie la vita.

Ma sono forse gli aspetti legati all’ereditarietà a renderla particolarmente crudele. Non è raro che una persona si renda conto di soffrire della malattia solo dopo aver avuto figli, e che debba dunque convivere non solo con la malattia, ma con la consapevolezza che, molto probabilmente, uno di loro avrà ereditato il gene difettoso. Esiste un test genetico per scoprire se si ha il gene mutato e se quindi si svilupperà la malattia, ma il 95% degli individui a rischio decide di non effettuarlo. Lo stress dell’incertezza è alto, ma i più lo considerano preferibile al sapere con certezza che percorreranno lo stesso, inesorabile declino motorio e cognitivo a cui hanno assistito nei propri genitori. Inoltre, un risultato positivo porta a una discriminazione nel lavoro e nei rapporti personali in quasi metà dei casi.

Un altro effetto peculiare del morbo di Huntington è quello che viene chiamato anticipazione genetica. Per meccanismi legati alla fecondazione, il numero di triplette CAG tende ad amplificarsi da genitore a figlio; e col numero di triplette non solo aumenta la gravità della malattia, ma diminuisce l’età a cui insorge. Così, di generazione in generazione, se la malattia viene trasmessa ai figli, tenderà a insorgere sempre più precocemente e a essere sempre più grave. Una forma di Huntington che si presenta prima dei vent’anni di età viene chiamata morbo di Huntington giovanile: in questi casi la còrea, se si manifesta, lascia ben presto spazio alla rigidità muscolare, e le convulsioni sono frequenti.

Relazione inversa tra numero di ripetizioni della tripletta CAG ed età di insorgenza del morbo di Huntington ottenuto da 1200 pazienti. Immagine dall’articolo “Huntington’s disease: the case for genetic modifiers” di J.F. Gusella & M.E. MacDonald, Genome Medicine 1 (2009), © BioMed Central Ltd 2009, licenza CC BY 4.0

Ma se sembra che al momento le prospettive per i malati siano molto deprimenti, la ricerca va avanti. Le numerose associazioni formatesi nel corso del Novecento per sensibilizzare sulla malattia hanno enfatizzato l’importanza degli interventi per migliorare la qualità della vita dei pazienti. È stato istituito un canale, chiamato HDBuzz, che riporta le ultime novità in fatto di ricerca sul morbo di Huntington (esiste anche in italiano, ma in inglese è più aggiornato). La condivisione delle linee guida per il trattamento dei malati ha permesso di elaborare strategie di gestione ottimale, anche se spesso è difficile ottenere un’assistenza di tipo domiciliare per metterle in pratica. E mentre la ricerca con le staminali procede con l’obiettivo di rimpiazzare i neuroni morti, la tecnologia CRISPR sembra promettente nell’eliminare le triplette CAG in eccesso, anche se per ora siamo soltanto alla primissima fase sperimentale in vitro.

 

Fonti:

Per saperne di più:

http://chdifoundation.org
http://hdsa.org
https://www.huntingtonsociety.ca
http://www.aichmilano.it

Immagine di copertina: Huntington con l’incipit del suo articolo.