• Perché ti capita una roba simile? Non è giusto.
  • È vero.
  • Tu fai un solo sbaglio…
  • E qual è stato lo sbaglio che hai fatto? Lo sai? Dillo.
  • Ho resistito. Sono riuscito a salvarmi.

I protagonisti di questo dialogo immaginario sono il giovane Conrad Jarrett e il dottor Berger, due personaggi del film “Gente comune”, dove Conrad affronta il ricordo della morte accidentale del fratello prediletto. Non è il dolore per il lutto, però, ad averlo spinto a tentare il suicidio, ma la percezione di aver fatto qualcosa di sbagliato non morendo insieme a lui o al posto suo.

Sopravvivere a un evento traumatico (come persecuzioni, disastri naturali e attacchi terroristici) mentre altri non ce l’hanno fatta può scatenare un senso di colpa molto forte, a volte intollerabile. Lo sapeva bene Primo Levi, che scrutò il rimorso e la depressione nei suoi libri, e i cui biografi concordano nel ritenere che si sia suicidato a causa, almeno in parte, di suoi ricordi dell’esperienza di Auschwitz. E proprio nei superstiti all’Olocausto fu per la prima volta riconosciuta quella che all’epoca venne chiamata “sindrome dei campi di concentramento” e oggi è nota come “sindrome del sopravvissuto”; una condizione psicologica che può condizionare chi ne è affetto fino a comprometterne gravemente l’adattamento sociale, scolastico o lavorativo. In misura minore, può anche verificarsi in circostanze diverse dalla morte, come per chi è stato risparmiato da un licenziamento che invece ha colpito altri.

Non è necessario che il sopravvissuto, col proprio comportamento, abbia causato la morte altrui, e nemmeno che l’abbia desiderata o che si sia disinteressato del loro destino. Il malessere deriva principalmente dalla percezione che sia stato violato un principio di equità. Perché io e non altri? Perché, pur non essendo degno di privilegi o non avendo fatto nulla per guadagnarmelo, sono stato risparmiato dal caso al posto di persone che probabilmente lo meritavano come e più di me? Questa domanda, destinata a rimanere non risolta, finisce per generare ruminazione (rielaborazione ciclica, ossessiva e non risolutiva dell’esperienza emotiva) e, di conseguenza, ansietà e depressione, disturbi del sonno e incubi, perdita di motivazione e sbalzi di umore, e in alcuni casi anche disturbi psicosomatici. Particolarmente preoccupante è il ritiro dalla vita sociale: il paziente si identifica con la sua colpa percepita e cerca di isolarsi dagli altri, ritenendosi nocivo per loro.

Molti dei superstiti all’attacco delle Torri Gemelle furono colpiti dalla sindrome del sopravvissuto.

Molti dei superstiti all’attacco delle Torri Gemelle furono colpiti dalla sindrome del sopravvissuto. (Immagine da wikimedia commons)

La sindrome del sopravvissuto è stata derubricata dalla lista di disturbi mentali specifici per essere riclassificata come manifestazione particolare del disturbo post-traumatico da stress. È singolare come la sindrome si possa manifestare anche se il trauma è stato vissuto a livello non consapevole; questo si manifesta per esempio nel caso di bambini nati dopo che i propri genitori avevano terminato altre gravidanze o di parti gemellari in cui uno dei due nascituri non sopravvive. In quel caso si può sviluppare una paradossale coesistenza di senso di colpa e di una sensazione di onnipotenza e megalomania, spesso accompagnata da un’aumentata esposizione al rischio e a un comportamento istrionico. Un esempio celebre è Elvis Presley. Durante un’intervista televisiva, un suo amico dichiarò che Elvis aveva l’impressione di aver assorbito troppo nutrimento a discapito del fratello gemello, causandone la morte in utero.

Come nel caso di molti disturbi di matrice psicologica, non esiste un approccio univoco per trattare la sindrome del sopravvissuto, anche considerando che le sue manifestazioni cliniche dipendono fortemente dal profilo psicologico della persona che ne soffre. La strategia più sensata è la terapia cognitiva-comportamentale; l’evento viene vissuto e rivalutato alla luce di quello che il paziente è diventato nel frattempo e delle altre esperienze vissute, mentre si correggono eventuali errori di ragionamento implicito che lo portano a distorcere il proprio ruolo in quanto accaduto, addossandosene la responsabilità. I farmaci antidepressivi possono contribuire a migliorare il quadro clinico, ma solo se affiancano un percorso che permetta al paziente di raggiungere un atteggiamento positivo e non giudicante nei propri confronti, smettendo di identificarsi con i propri sentimenti di inadeguatezza.

 


Immagine di copertina: wikimedia commons, Memoriale dell’Olocausto a San Francisco, Palazzo della Legione d’Onore.