Tra gli ologrammi più celebri della storia del cinema c’è sicuramente quello con cui la Principessa Leia chiede aiuto a Obi Wan Kenobi, attraverso il droide R2-D2. Il sogno di riprodurre un effetto di questo tipo è inseguito da molti anni dagli scienziati di tutto il mondo, con risultati via via più realistici.

Gli attuali ologrammi, usati tra le altre cose anche per evitare la contraffazione delle banconote, sono in realtà pellicole bidimensionali in cui un’immagine viene registrata con la tecnica dell’interferenza ottica. Una sorgente di luce coerente, ovvero in cui tutti i fotoni hanno la stessa lunghezza d’onda e sono in fase tra loro – come avviene, per esempio, nei laser -, viene separata in due fasci, dei quali uno viene indirizzato verso la pellicola sensibile, mentre l’altro arriva dopo essere stato riflesso dall’oggetto che deve essere “olografato”. L’origine di questa tecnica risale agli anni Quaranta del Ventesimo secolo e ha fruttato al pioniere ungaro-britannico Dennis Gabor il premio Nobel per la fisica nel 1971. Di fatto, la prima immagine olografica era stata ottenuta solo nel 1962 da Yuri Denisyuk in Unione Sovietica, quando la tecnologia dei laser era diventata sufficientemente matura. Negli anni successivi sono state sviluppate anche tecniche che sfruttano luce bianca, ma in ognuno di questi casi c’è una grossa limitazione: l’immagine porta informazioni tridimensionali dell’oggetto olografato, ma si crea su una superficie bidimensionale.

Il primo “vero” ologramma tridimensionale a colori è stato creato da una cordata di aziende sudcoreane, guidate dalla LG: dopo due anni di lavoro, nel 2015, è stato presentato un oggetto in grado di mostrare un’immagine olografica a colori senza supporto bidimensionale. Ai tempi della presentazione di questo risultato, i responsabili del progetto avevano anche dichiarato che nel 2021 troveremo sul mercato “display” olografici tridimensionali a colori da 10 pollici.

Un ulteriore notevole passo avanti si è avuto grazie ai ricercatori della Brigham Young University (BYU), nello Utah. Il gruppo guidato da Daniel Smalley ha pubblicato i suoi risultati pochi giorni fa su Nature, riportando come il progetto sia chiamato colloquialmente dai suoi collaboratori “Princess Leia Project”, proprio in onore di Guerre Stellari. La prima cosa che Smalley tiene a sottolineare è che, a rigore, l’immagine di Leia proiettata da R2-D2 non è un ologramma, ma una immagine volumetrica. La fantascienza è piena di immagini volumetriche, dal display 3D di Tony Stark in Iron Man al grande tavolo di Avatar, ma sicuramente l’eroina interpretata da Carrie Fisher resta l’icona più riconoscibile.

L’idea di Smalley è al tempo stesso molto semplice e complicatissima da realizzare: per rendere visibile una immagine, c’è bisogno di una superficie che rifletta la luce e per ottenere questo effetto i ricercatori della BYU hanno costruito una trappola ottica, in grado di mantenere in una certa posizione nello spazio una piccola particella di cellulosa. Un sistema di laser infrarossi scalda questa particella, spingendola nella posizione desiderata. Un altro sistema di laser colorati la illumina seguendola nel suo percorso e si ottiene così un “disegno” che fluttua nello spazio.

Per poter essere visibile come un oggetto e non come un punto che si muove, la particella deve viaggiare molto velocemente. In questo modo, la persistenza della visione dà l’illusione di una linea continua. La persistenza della visione è, in parole molto semplici, un effetto fisiologico che fa sì che anche dopo che un punto luminoso si è “spento”, noi continuiamo a vederlo per una frazione di secondo. Questo fenomeno è alla base della proiezione delle pellicole, in cui una serie di fotogrammi vengono illuminati in sequenza, con una frazione di secondo di buio tra uno e l’altro, ma noi vediamo il nostro film con continuità.

I risultati della BYU sono ancora lontani dal perfetto realismo delle immagini volumetriche dei film di fantascienza, ma con queste condividono il fatto di essere visibili da ogni posizione e di essere davvero tridimensionali: come dice Smalley, il suo lavoro è simile a costruire una stampante 3D per la luce… e l’effetto è notevolissimo!

 


Immagine di copertina: Tupac Shakur nella sua partecipazione virtuale a Coachella nel 2012 (Wikimedia Commons)