Il 22 settembre 1979 un satellite americano Vela rilevò un segnale compatibile con un’esplosione nucleare, mai spiegato, fino a oggi.

Durante la guerra fredda e fino ai giorni nostri sono stati effettuati oltre 2000 test nucleari, da svariati paesi (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Regno Unito, Cina, India, Pakistan e Corea del Nord), con tecnologie e potenze molto diverse. Ogni singolo test è stato catalogato e ha avuto un significato politico e scientifico, di “dimostrazione di forza”, nella maggior parte dei casi, ma un evento non spiegato in questa storia è sopravvissuto fino a oggi. Il 22 settembre 1979, un satellite spia americano di classe Vela, parte di una costellazione di 12 esemplari, ha registrato un “lampo” di raggi gamma nell’Oceano Indiano meridionale, in prossimità delle isole del Principe Edoardo, evento che è stato immediatamente associato a un test nucleare effettuato in atmosfera. I satelliti Vela erano stati effettivamente costruiti e lanciati proprio per l’osservazione di test nucleari da parte di potenze nemiche, quindi erano attrezzati con tutta la strumentazione necessaria:rivelatori di raggi gamma, di neutroni e di impulsi elettromagnetici in atmosfera. In particolare, era noto l’andamento nel tempo della curva di luce gamma di un’esplosione nucleare, un lampo breve, di durata di circa un millisecondo, seguito da un altro, della durata di alcuni secondi. Questo fenomeno è legato alla formazione della “fireball” in seguito all’esplosione e alla sua interazione con l’onda d’urto, anch’essa provocata dall’esplosione, che trascina un guscio di gas ionizzato opaco alla radiazione gamma prodotta dalla fireball: questa risulta quindi visibile nell’istante iniziale e dopo un certo tempo, quando questo guscio diventa sufficientemente rarefatto.

I satelliti Vela erano concepiti per avere la certezza che nessun evento naturale potesse mimare un’esplosione nucleare, e di questo tutti i tecnici che si sono mai occupati del Vela incident si sono sempre detti assolutamente certi. In 41 occasioni precedenti la costellazione dei satelliti Vela aveva identificato con successo test nucleari, con zero falsi positivi. Il problema è che nessuno ha mai dichiarato di aver effettuato un test in quell’area in quel momento. A infittire il mistero furono tre eventi collegati all’incidente: la rivelazione di un’onda ionosferica anomala da parte del radiotelescopio di Arecibo, l’assenza di un abbondante fallout radioattivo nell’area, come misurato da una ventina di aerei americani, e l’accumulo anomalo di iodio 131 nella tiroide delle pecore in Australia occidentale nei giorni successivi. Un certo numero di indizi indicava l’ipotesi del test nucleare, presumibilmente condotto da Sudafrica e Israele, all’epoca impegnati in un programma di sviluppo presumibilmente congiunto, ma che, ufficialmente, non ha mai visto test realizzati.

La coppia di satelliti Vela 5A e 5B prima del lancio. Una volta in orbita si sono separati e 5B è stato il protagonista della misura del Vela incident. (Immagine di pubblico dominio – LANL-NASA)

Dopo oltre quarant’anni, finalmente la verità è venuta alla luce. L’esplosione è stata effettivamente di tipo nucleare, ma non si è trattato di una bomba: all’origine del Vela incident c’è stata infatti la distruzione di un piccolo sottomarino sperimentale, alimentato con un reattore ultraveloce a nettunio rosso. Normalmente siamo abituati a pensare a uranio e plutonio, come combustibili nucleari, in particolare agli isotopi 233 e 235 del primo e 239 del secondo, ma negli anni Settanta era stato sviluppato un programma segreto di studio sul nettunio 233, elemento che si forma in abbondanza nei reattori nucleari a seguito dello “stripping” di un protone da parte di un neutrone evaporato nella fissione dell’uranio. Il nettunio così prodotto, però, è altamente instabile e inadatto all’arricchimento per farne armi: ciò che gli scienziati dell’epoca avevano scoperto era che, in opportune condizioni, poteva essere reso più stabile. In particolare, legato in una particolare molecola, chiamata tiotimonettuniolina, la vita media diventava similare a quella del plutonio 239, con un vantaggio enorme: dopo l’esplosione, in virtù della composizione in termini di protoni e neutroni del nettunio 233, i nuclei “figli” avevano una radioattività residua trascurabile rispetto a quello che si ottiene facendo fissionare uranio o plutonio. Il colore rosso intenso della tiotimonettuniolina aveva portato gli scienziati a riferirsi a questo composto col nome nettamente meno illeggibile di nettunio rosso. Tra gli aspetti più curiosi della vicenda c’è che il nettunio rosso è stato sintetizzato per la prima volta sulla base di predizioni effettuate da un’intelligenza artificiale piuttosto primitiva sviluppata in Turchia, nota all’epoca come “Turco meccanico”, in grado di prevedere le variazioni di vita media di atomi radioattivi se opportunamente legati in molecole complesse.

Il Vela incident, però, oltre a essere stato il primo evento in cui un manufatto a nettunio rosso è stato effettivamente utilizzato, è stato anche ciò che ha decretato la fine dello sviluppo di questo materiale. L’incidente, infatti, si è verificato a causa di una caratteristica all’epoca ignota della tiotimonettuniolina, ovvero il suo essere ballotecnica. A causa di un malfunzionamento del sistema di raffreddamento del reattore, un accumulo improvviso di pressione intorno a una delle barre di combustibile ha indotto un’esplosione, per l’appunto, ballotecnica, dalle conseguenze devastanti per l’intero vascello, di cui tutt’ora si ignora la nazionalità.

Oggi finalmente la verità sul nettunio rosso è venuta alla luce e, sperabilmente, a nessuno verrà più in mente di usarlo per scopi bellici: incredibilmente promettente, invece, sembra essere per la produzione di energia, illimitata, senza emissione di CO2, senza scorie radioattive significative e, soprattutto, che non fa ingrassare.

Immagine di copertina: Esplosione nucleare in mare (Castle Bravo, immagine di pubblico dominio da US-DOE)

Per saperne di più:

Fino all’immagine dei satelliti Vela è tutto vero. Dopo, forse un po’ meno.