L’idea che gli esseri umani, in particolar modo nei cosiddetti “paesi sviluppati”, stiano andando incontro a un progressivo instupidimento o, detto in altri termini, una progressiva riduzione dell’intelligenza, è molto diffusa, anzi spesso data per scontata. Sovente questo assunto viene accompagnato da un elenco delle motivazioni del fenomeno, che non di rado banalizza un discorso complesso riconducendo il tutto all’uso dei social e di internet e al non meglio specificato “analfabetismo funzionale” che ne deriverebbe.
Talvolta, quando se ne discute, si fa riferimento al cosiddetto “effetto Flynn”, che prende il nome dallo psicologo James R. Flynn, che lo descrisse negli anni ottanta del secolo scorso, a partire dai dati, ritenuti sufficientemente affidabili, provenienti da diversi paesi. Flynn osservò come, nel tempo, in questi paesi il QI (quoziente d’intelligenza) della popolazione fosse aumentato, in media, di circa 3 punti ogni decennio, con nette variazioni di zona in zona, ma in modo comunque significativo. I dati principali presi originariamente in esame riguardavano il periodo dal secondo dopoguerra agli anni ottanta del secolo scorso, in seguito alla disponibilità dei più robusti strumenti standardizzati e dei loro aggiornamenti. L’effetto Flynn è certamente osservabile fino a tutti gli anni novanta.
Le ipotesi per spiegare questo incremento sono relative al miglioramento nell’alimentazione, nel livello di istruzione, negli stimoli ambientali e, in generale, nei fattori che sono correlati a migliori performance nei test per la misurazione del QI.
Da un po’ di tempo si sente, però, parlare di un’inversione dell’effetto Flynn nei paesi più sviluppati. Il concetto è stato anche reso popolare dalla commedia fantascientifica distopica Idiocracy, che immagina un futuro dominato dalla diffusa stupidità.
Ma l’idea di un capovolgimento dell’effetto Flynn e della diminuzione del QI nelle nuove generazioni rispetto a quelle precedenti si può definire un dato solido sul piano scientifico? Per aiutarci a interpretare la questione nella maniera più corretta, abbiamo chiesto il parere di Enrico Toffalini, psicologo e ricercatore nel campo dell’intelligenza presso il dipartimento di Psicologia generale dell’Università di Padova.
«Le ricerche sulla cosiddetta inversione dell’effetto Flynn e, quindi, relative alla diminuzione, nel tempo, del QI – ci ha detto – rientrano certamente nel campo dell’indagine scientifica, tuttavia l’evidenza non è chiara né univoca». Continua l’esperto: «In primo luogo, è importante distinguere il fenomeno della riduzione degli incrementi del QI da quello di una vera e propria inversione. La progressiva riduzione degli incrementi del QI, almeno nei paesi industrializzati, è un dato abbastanza consolidato (si veda, per esempio, la meta-analisi di Pietschnig e Voracek del 2015). Tuttavia, essa potrebbe suggerire semplicemente una “saturazione” dell’effetto Flynn, ovvero il fatto che i già citati fattori ambientali che guidavano gli incrementi del QI si avvicinano a raggiungere il loro massimo e perciò a esaurire il loro potenziale. Resta possibile anche l’ipotesi secondo cui, dietro la riduzione degli incrementi, si nascondano effettivamente fattori negativi, che alla lunga porteranno al declino medio del QI». Allo stato attuale, che cosa dicono i dati di cui disponiamo? Sottolinea Toffalini: «L’effettiva inversione dei punteggi del QI è stata rilevata in modo abbastanza solido e attendibile solo in alcuni paesi, specialmente in quelli nordici e soprattutto scandinavi. Questo potrebbe suggerire che il fenomeno sia localizzato e specifico. Tuttavia, è anche vero che i paesi nordici effettuano i più ampi screening sulla popolazione giovane adulta (per esempio, tramite il servizio militare in Norvegia e in Danimarca), disponendo così di dati precisi e rappresentativi. In tal senso, essi potrebbero essere rivelatori di ciò che sta avvenendo anche altrove. In ogni caso, al momento ci troviamo nel campo delle ipotesi e della speculazione. A oggi è assolutamente prematuro affermare che vi sia un capovolgimento generalizzato dell’effetto Flynn, anche solo nei paesi industrializzati».
Le perentorie affermazioni da cui prendono le mosse alcune analisi non sembrano, pertanto, solidamente fondate. Ulteriori ricerche e approfondimenti saranno necessari per verificare l’esistenza del fenomeno e la sua portata. Aggiunge Toffalini: «Se confermato, l’effetto non sarebbe di portata trascurabile. Gli studi che hanno rilevato un declino del QI forniscono stime che variano da una frazione di punto a oltre 8 punti in meno nel corso di un decennio, con una media attorno a 3 punti. Questo sarebbe un dato abbastanza pesante, trattandosi circa della stessa magnitudine del guadagno dell’effetto Flynn originale (3 punti ogni 10 anni), ma in negativo».
Allo stato attuale non è, però, ancora possibile affermare che ci sia un’inversione generalizzata dell’effetto Flynn. Chiediamoci, quindi, quanto senso possa avere cercare di comprendere le cause di un fenomeno ben lontano dall’essere accertato, cosa già molto difficile quando ci troviamo di fronte a fenomeni la cui esistenza è provata. «Come sempre accade nella scienza, stabilire le cause di un fenomeno è molto più difficile che stabilire il fenomeno stesso. Perfino in merito all’originale effetto Flynn non si è ancora giunti a un consenso generale, nell’ambito della comunità scientifica, sull’insieme delle cause, o quantomeno sulla rilevanza relativa di ciascuna. Perciò, il tentativo di definire le cause di un’eventuale inversione dell’effetto lascia ampissimi margini di incertezza», sottolinea, infatti, Enrico Toffalini.
Nel 2018, all’interno dello studio che prende in esame gli ampi dati relativi alla Norvegia, Bratsberg e Rogeberg hanno passato in rassegna le diverse ipotesi proposte per spiegare l’eventuale inversione dell’effetto Flynn, che si possono sostanzialmente dividere in due categorie: spiegazioni basate su effetti genetici o relative a fenomeni migratori (che presentano, come vedremo, serissimi limiti sul piano del rigore metodologico e scientifico) e spiegazioni relative al ruolo dell’ambiente e degli stimoli che dallo stesso arrivano ai soggetti. «Da una parte – sottolinea Toffalini – sono state avanzate discutibili spiegazioni, come quella secondo cui le persone con livello intellettivo più basso avrebbero una propensione ad avere più figli o quella relativa a un ruolo dei fenomeni migratori, cioè l’idea secondo cui l’arrivo di ampi gruppi di persone da contesti in cui il quoziente di intelligenza, per qualsiasi ragione, risulti in media più basso comporterebbe una riduzione del quoziente medio della popolazione in esame. Le spiegazioni di tipo ambientale si soffermano, invece, sul declino del sistema di istruzione e dei valori educativi, l’influenza di TV e media, l’impoverimento del linguaggio e così via». A questo proposito, le conclusioni che si ricavano dai dati norvegesi sono significative. Continua Toffalini: «Bratsberg e Rogeberg, analizzando le ampie coorti di dati norvegesi, hanno concluso che le variazioni negative dell’effetto Flynn sarebbero completamente spiegate da variazioni entro (e non tra) le famiglie, escludendo, di fatto, le spiegazioni genetiche, a favore di quelle di tipo ambientale».
Le gravi fallacie e debolezze degli studi che riterrebbero di spiegare le differenze di intelligenza sulla base di elementi relativi a genetica e migrazioni sono, infatti, da tempo note, anche se, purtroppo, personalità molto famose del mondo scientifico (per esempio il premio Nobel James Watson) sembrano prestarvi fede, avallando vergognosamente pregiudizi antiscientifici. Allo stesso modo, è ben nota l’importanza di adoperare test d’intelligenza esenti, nei limiti del possibile, da elementi legati a una determinata cultura o all’istruzione del soggetto, per ottenere risultati attendibili. Nel corso del tempo, l’uso improprio di test di intelligenza che non soddisfacevano questo requisito è stato all’origine del perpetuarsi di pregiudizi nei riguardi di categorie di persone o popolazioni.
Sottolinea, inoltre, Toffalini: «Molti studi che si occupano dell’inversione dell’effetto Flynn e che la spiegano in termini disgenici o di immigrazione sono riconducibili al nome dello studioso britannico Richard Lynn, la cui figura è molto controversa. È accusato di promulgare tesi razziste che vengono poi impugnate dai gruppi dei suprematisti bianchi. Nel 2018 gli è stato ritirato il titolo di professore emerito dall’Università dell’Ulster proprio in conseguenza delle controversie associate alla sua figura. In Italia conosciamo Lynn soprattutto per la discutibile tesi, avanzata nel 2010 in base a dati sugli apprendimenti, secondo cui gli italiani del sud sarebbero meno intelligenti degli italiani del nord a causa della mescolanza genetica con popolazioni mediorientali e africane. Al tempo un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova guidati dal prof. Cornoldi smentì le affermazioni di Richard Lynn mostrandone le gravi fallacie metodologiche con una serie di articoli scientifici». A questo contributo si sono, poi, affiancati gli studi di altri gruppi di ricerca, che hanno parimenti sottolineato l’assoluta infondatezza e la pseudoscientificità della teoria in questione.
Ritornando all’ipotetica inversione dell’effetto Flynn, bisogna, inoltre, sottolineare come altre ricerche riportino conclusioni diverse rispetto ai dati di alcuni paesi nordici. Aggiunge Toffalini: «Non tutti gli studi giungono a conclusioni pessimistiche sull’esaurimento o inversione dell’effetto Flynn. Per esempio, l’ampio studio di Skirbekk e altri del 2013 nella popolazione adulta e anziana del Regno Unito suggeriva che l’effetto Flynn si stesse ancora bene osservando durante gli anni 2000, e che sovra-compenserà l’effetto dell’invecchiamento della popolazione (statisticamente accompagnato da un declino medio nelle prestazioni nei test) almeno fino al 2040. Invecchiamento della popolazione ed effetto Flynn sono fenomeni del tutto indipendenti, ma che spingono in direzioni opposte per quanto riguarda la prestazione media della popolazione nei test». Con l’età si assiste, infatti, mediamente, a un declino di alcune capacità, per esempio quelle fluide come la memoria di lavoro, misurate da determinate sezioni dei test; questo studio, indica, però, la possibilità che l’effetto Flynn continui a compensare questo fenomeno. Aggiunge l’esperto: «È importante notare che gli incrementi di QI medio, come quelli riconducibili all’effetto Flynn, non agiscono necessariamente solo tra coorti di individui; come mostrato da Salthouse in uno studio del 2015, condotto su adulti in un’ampia fascia di età, vi è un effetto relativo al tempo di misurazione, per cui si osservano guadagni in QI anche entro la stessa coorte di individui nel corso del tempo, per esempio grazie a un ambiente sempre più stimolante nel quale le stesse persone vivono».
In generale, possiamo concludere come il quadro relativo a una presunta inversione dell’effetto Flynn nei paesi sviluppati sia, a tutt’oggi, poco chiaro. Per alcune zone i dati sembrano abbastanza consolidati, ma è ancora prematuro ritenerli generalizzabili, perché contraddetti da altri dati relativi a zone diverse. Per le zone in cui i dati permettono una valutazione, come la Norvegia, il fatto che le variazioni siano rilevabili soprattutto all’interno delle famiglie ha portato gli scienziati a concludere che le cause siano da riferirsi all’ambiente (per esempio alla qualità del sistema educativo e agli stimoli ricevuti dai soggetti). In un’ottica di giustizia sociale e rispetto dei diritti umani è, quindi, importante impegnarsi per garantire a tutte le persone e in tutte le parti del mondo delle pari opportunità e, nello specifico, un ambiente intellettivamente e culturalmente stimolante, oltre al benessere psico-fisico, per permettere a ciascuno di realizzare il proprio potenziale. Purtroppo, al momento, ci troviamo ancora molto distanti da questo obiettivo.