Nel mondo occidentale, una delle condizioni psicologiche più diffuse è l’ansia sociale, ossia la paura di non saper affrontare una determinata situazione sociale sottoposta al giudizio altrui. Per esempio, poco meno di una persona su cinque ne soffre negli Stati Uniti e stime simili si hanno anche in altri paesi, prevalentemente tra i giovani. Un certo grado di ansia è normale, specialmente di fronte a situazioni sociali nuove. Se andiamo a vedere però il mondo orientale, esiste una specifica forma di ansia sociale limitata quasi esclusivamente al Giappone, detta taijin kyofusho. L’espressione significa letteralmente “disturbo della paura delle relazioni interpersonali”.

Non è chiaro se il taijin kyofusho si possa classificare come un’ansia sociale vera e propria. Infatti, nella visione occidentale l’ansia sociale rappresenta la paura di creare imbarazzo col proprio comportamento, mentre il taijin kyofusho è più sintomatico di un timore di offendere o creare disagio negli altri con la propria semplice presenza o con elementi correlati al proprio corpo, come per esempio l’odore.

Le stime indicano che una percentuale compresa tra il 3 e 13% ne soffre per tutta la vita e fino al 20% ne è affetto almeno in una fase della propria esistenza. La condizione è prevalente negli uomini, contrariamente alla fobia sociale tradizionalmente intesa, che si manifesta soprattutto nelle donne. Si pensa che il taijin kyofusho sia così diffuso in Giappone a causa della cultura giapponese, che pone delle aspettative molto alte in termini di comportamenti sociali e ha un’impostazione di base più orientata verso la collettività, dove quello che conta non sono i giudizi individuali, ma le reazioni del proprio gruppo sociale.

Per quanto questa condizione mentale sembri già di per sé piuttosto di nicchia, ne esistono quattro sottotipi:

  • Sekimen kyofu, la paura di arrossire. Si tratta di una fobia analoga a quella che in occidente viene chiamata ereutofobia, ma psicologicamente ha radici diverse, poiché mentre nella fobia sociale classica si ha paura, tramite il rossore, di rendere manifesta la propria vulnerabilità, nel caso del sekimen kyofu è proprio il rossore in sé che viene considerato una manifestazione corporea sconveniente
  • Shubo kyofu, la fobia, talvolta irrazionale, che una parte del proprio corpo sia deforme o disgustosa. È simile alla dismorfofobia, ma quest’ultima a volte può comportare insoddisfazione per il proprio aspetto esteriore nel suo comples, mentre lo shubo kyofu tende a focalizzarsi su dettagli specifici del proprio aspetto. Inoltre, chi ne soffre non teme tanto di essere deriso o emarginato per il proprio aspetto, quanto che quest’ultimo rechi un’offesa agli altri
  • Jikoshisen kyofu, la paura del contatto visivo. Anche in questo caso, va specificato che il timore è quello di risultare inopportuni, ed è diverso dallo stress generato dal contatto visivo in altri tipi di condizioni psicologiche o neurologiche come l’autismo
  • Jikoshu kyofu, la paura che il proprio odore corporeo sia sgradevole. L’equivalente occidentale, tenendo a mente le differenze già menzionate nel significato delle due fobie, si chiama sindrome da riferimento olfattivo.

La terapia utilizzata per trattare il taijin kyofusho può includere una combinazione di farmaci e approccio comportamentale. Quest’ultima si rifà all’approccio elaborato dallo psicologo Shoma Morita attorno al 1910 e include una serie di interventi radicali che cominciano con l’isolamento volontario e il riposo monitorato in una struttura ospedaliera, proseguono con una terapia occupazionale di impegno crescente (passando da lavoretti monotoni e leggeri ad attività più creative e laboriose) fino alla partecipazione ad attività complesse e personalizzate al di fuori dell’ambiente ospedaliero, definite con la partecipazione del paziente al quale viene chiesto di tenere un diario. L’obiettivo dichiarato di questa terapia è quello di portare i pazienti ad accettare la propria corporeità e a imparare come gestire da soli i propri sentimenti per poi procedere alla reintroduzione in società.

È un approccio orientale per un problema orientale, che anche a seguito dei vari adattamenti alla terapia di gruppo si è dimostrato piuttosto efficace. Negli ultimi tempi, anche il trattamento farmacologico ha cominciato a vincere le resistenze dei pazienti; i farmaci più promettenti appartengono alla classe degli antidepressivi e sono in grado di ridurre l’ansia sociale. Includono principi attivi che agiscono sul rilascio di serotonina e noradrenalina, due neurotrasmettitori importanti rispettivamente nella regolazione dell’umore e nella risposta allo stress.

Il taijin kyofusho ha dei legami con un’altra condizione che trova il suo background nella cultura giapponese, quella degli hikikomori, i reclusi totali che non escono mai dalla propria stanza. Si tratta di situazioni legate a doppio filo con la vergogna sociale. Ma il Giappone non ha l’esclusiva dei disturbi di origine culturale. Alcuni esempi sparsi per il globo sono:

  • Il susto, una sindrome che origina dal terrore di aver perso la propria anima ed è accompagnata da inappetenza, pallore, letargia, trascuratezza personale e isolamento sociale; è diffusa tra le popolazioni latinoamericane, anche tra chi è emigrato in Nord America
  • L’uquamairineq, un disturbo associato alle popolazioni dell’Alaska e della Siberia orientale (nativi, Inuit, Yuit) che include paralisi nel sonno, stati ipnotici e dissociativi e allucinazioni
  • Il koro, la percezione che i propri genitali o il proprio seno si stiano ritirando all’interno del corpo; è diffusa tra i residenti cinesi di Hong Kong e ha radici nella vergogna per gli atti sessuali considerati impuri.

D’altronde, esistono alcune condizioni che appaiono legate alla cultura occidentale. Secondo uno studio del 2007, tra queste vi è l’amnesia dissociativa che non solo sarebbe legata alla cultura occidentale, ma sarebbe tipica del periodo storico dal 19° secolo in poi. Nell’amnesia dissociativa, il paziente in seguito a un evento traumatico perde improvvisamente i ricordi di episodi appartenenti al passato per un periodo di tempo che va da qualche ora a diversi anni, senza che il cervello subisca danni organici.

Secondo gli autori, le radici del disturbo derivano dalla nozione dell’inconscio, sviluppata in Europa a partire dal 19° secolo (e divenuta molto popolare), come posto in cui relegare i ricordi più sgradevoli, e dall’ampio uso di questo concetto come espediente drammatico nella letteratura e nel cinema (utilizzato anche da Alfred Hitchcock in film come Io ti salverò). In questo modo gli occidentali, seguendo gli archetipi narrativi, avrebbero “imparato” a seppellire i propri traumi nell’oblio per non soffrirne. Un esempio piuttosto poetico di come la letteratura non solo prenda spunto dalla psicologia, ma possa arrivare anche a plasmarla in modo profondo.

 


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