Meno di un anno fa la maggior parte della popolazione mondiale non aveva mai sentito parlare di Zika, ma tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 abbiamo iniziato a ricevere notizie allarmanti dal Sud America, che sono culminate con la dichiarazione di emergenza dell’OMS legata all’aumento di microcefalie e disordini neurologici nei paesi del Sud America causate dal virus Zika: un virus trasmesso dalle zanzare appartenente alla famiglia dei Flavivirus, di cui fanno parte anche Dengue e West Nile Virus.

Durante quest’anno in cui il virus è stato al centro dell’attenzione mediatica abbiamo scoperto, o sono diventate di pubblico dominio, diverse proprietà del virus:

  • l’elevata capacità di diffusione che accomuna i virus trasmessi dalle zanzare: dal 2015 a oggi Zika si è diffuso in 67 paesi, soprattutto del Sud America, ma anche Stati Uniti, Capo Verde e Singapore;
  • la capacità di causare microcefalie, ovvero un ridotto sviluppo cerebrale, e altri disturbi neurologici nei bambini la cui madre ha contratto il virus durante la gravidanza;
  • la capacità del virus di essere trasmesso per via sessuale: il primo caso documentato risale al 2008 quando un ricercatore statunitense contrasse il virus in Senegal e una volta rientrato in patria lo trasmise alla moglie;
  • la capacità del virus di rimanere anche per mesi all’interno del corpo umano: si raccomanda di astenersi dai rapporti sessuali per 6 mesi dopo la possibile esposizione al virus
  • non ci sono vaccini o antivirali specifici, le attuali strategie in atto sono volte a controllare il vettore, le zanzare del genere Aedes, che nelle stesse aree sono responsabili anche della trasmissione di Dengue e Chikungunya.

La grande attenzione mediatica ha portato ovviamente un grande interesse anche da parte degli scienziati di tutto il mondo, in parte per la ricerca di vaccini e possibili cure, in parte per meglio comprendere le caratteristiche del virus. In quest’ambito, a ottobre 2016 su Nature è stato pubblicato uno studio in cui si riporta che il virus potrebbe costituire un problema per la fertilità maschile. Lo studio, condotto sui topi, mostra che il virus è in grado di persistere a lungo nei testicoli, caratteristica simile a quella riscontrata nei casi di infezione nell’uomo (che porta alla raccomandazione di astenersi dal sesso per 6 mesi). Inoltre, i ricercatori hanno potuto evidenziare che in seguito alla persistente produzione di virus nei testicoli, si osserva una ridotta produzione di spermatozoi, di testosterone e un rimpicciolimento dei testicoli stessi in termini di peso e volume.

Questi sono risultati preliminari, ottenuti su un animale modello, ma sicuramente sottolineano come sia necessario prestare attenzione a possibili patologie legate al virus, non ancora emerse nell’epidemia in corso.

 


Immagine di copertina: Crystal Eye Studio by Shutterstock