La possibilità di ottenere immagini del cervello e della sua attività ci ha consentito di fare enormi passi avanti nella comprensione della sua funzionalità. Ma come si fa a fotografare un cervello?

È probabile che vi sia capitato di vedere su internet, o su un giornale, un articolo che riporta una ricerca scientifica di neuroscienze corredata da immagini del cervello, in bianco e nero o molto colorate.

Il cervello, però, si trova sotto la pelle e all’interno della scatola cranica, che è un osso piuttosto spesso. Inoltre è formato da vari tipi di tessuti con proprietà fisiche e chimiche diverse tra loro: la cosiddetta sostanza grigia, che indica i corpi cellulari dei neuroni, la sostanza bianca, cioè le connessioni tra i neuroni, e il fluido cerebrospinale, che è un liquido presente nei ventricoli al centro del cervello. Dunque come fanno gli scienziati a ottenere immagini del cervello?

Ci sono diversi strumenti a disposizione, ma qui ci concentreremo su una tecnica usata spesso in neuroscienze: la risonanza magnetica (MRI – in inglese Magnetic Resonance Imaging). L’MRI, come dice il nome, è fondamentalmente basata su un grande magnete. Sfruttando l’effetto del campo magnetico su una sostanza di contrasto già presente nel nostro corpo, cioè l’acqua, possiamo ricostruire immagini del cervello in 3D.

Ora vediamo come funziona.

Il campo magnetico principale all’interno dell’MRI, chiamato per convenzione B0, è molto intenso. Oggigiorno, nel campo delle neuroscienze, tipicamente si usano campi magnetici di 3T (unità di misura: Tesla), ma diversi gruppi di ricerca stanno passando a campi magnetici di 7T. Per riferimento, il campo magnetico terrestre è nell’ordine delle decine di microtesla: 10e-5T. Inoltre, il campo magnetico B0 è parallelo o perpendicolare al lettino dove i pazienti si sdraiano (a seconda della struttura del magnete, chiusa o aperta). Queste due caratteristiche di B0, l’intensità e la direzione, hanno un effetto cruciale sui protoni dell’idrogeno presenti nelle molecole di acqua, che si allineano nella direzione di B0.

Una volta allineati, i protoni possono essere stimolati in modo da rompere l’equilibrio acquisito grazie all’azione di B0. La rottura dell’equilibrio viene ottenuta emettendo segnali a radiofrequenza. Inoltre, un ulteriore gradiente di campo magnetico viene ottenuto facendo passare della corrente elettrica in una serie di bobine posizionate all’interno di B0. In particolare la corrente elettrica, che quando passa causa il forte suono che si sente quando ci si sottopone a una risonanza, viene attivata in contemporanea all’emissione della radiofrequenza. Il gradiente magnetico aggiuntivo fa in modo che i protoni si comportino in modo leggermente differente in diverse regioni dello spazio. Questo ci permette di ricostruire dove, nelle tre dimensioni, i protoni hanno impiegato un tempo specifico per tornare in equilibrio (per una spiegazione più approfondita consiglio questo video). 

La rottura dell’equilibrio, però, dura solo quanto il segnale di radiofrequenza. Non appena il segnale cessa, i protoni tornano a essere allineati col campo magnetico B0 e il tempo impiegato dai protoni per tornare in equilibrio dipende dal tipo di tessuto con cui stanno interagendo. Questo è il passaggio chiave che ci permette di usare una MRI per ottenere immagini del cervello. Dato che noi siamo in grado di misurare il tempo impiegato dai protoni dell’idrogeno per tornare in equilibrio con B0 possiamo differenziare tra sostanza bianca, grigia, e il fluido cerebrospinale. Grazie a tutte queste caratteristiche possiamo ricostruire un’immagine anatomica del cervello in 3D, dettagliata al millimetro cubo.

Immagine MRI anatomica. Da sinistra: visione laterale, coronale (da dietro), e sagittale (da sopra)

Le possibilità però non finiscono qui. Il cervello ha bisogno di molto ossigeno per funzionare correttamente quindi le aree cerebrali che si attivano di più in risposta a un compito o uno stimolo attirano molto più sangue ossigenato rispetto ad altre aree non direttamente coinvolte. Nel sangue l’ossigeno è trasportato dall’emoglobina, una molecola che interagisce con i campi magnetici in modo differente se trasporta ossigeno o anidride carbonica. Grazie al fatto che conosciamo nel dettaglio come l’emoglobina ossigenata o de-ossigenata modifica il campo magnetico nella risonanza, abbiamo imparato a misurare quanto sangue ossigenato c’è nelle diverse aree del cervello e, di conseguenza, quali aree sono coinvolte nelle diverse attività cognitive.

Questo processo viene chiamato risonanza magnetica funzionale (fMRI), perché misura la funzionalità del cervello nel tempo, contrariamente all’MRI tradizionale che misura le caratteristiche anatomiche ed è statica. Nella figura qui sotto vedete la mappa delle attivazioni sovrapposta all’immagine anatomica. Più il colore dell’immagine tende verso il giallo/bianco più l’area è attiva. In questo caso si vede l’attività dell’amigdala (qui trovate un esempio di che tipo di informazioni interessanti possiamo ottenere usando questa misura).

Immagine dell’attivazione dell’amigdala ottenuta sovrapponendo la mappa delle attivazioni ottenuta con fMRI e l’immagine anatomica.

Un’ulteriore possibilità è quella di usare l’MRI per misurare in quale direzione le molecole dell’acqua di diffondono, con una tecnica chiamata imaging pesato in diffusione (Diffusion weighted imaging – DWI). Nei tessuti corporei, le molecole dell’acqua non sono libere di muoversi in qualsiasi direzione con la stessa probabilità, perché le membrane cellulari ne impediscono il libero movimento. In particolare, le molecole di acqua si muoveranno con più probabilità in direzione parallela alle membrane cellulari piuttosto che in direzione perpendicolare. Sfruttando questa caratteristica possiamo ricostruire in che direzione si spostano gli assoni, cioè la parte dei neuroni dedicata a trasferire il segnale in altre aree del cervello e a comunicare con altri neuroni.

Avere questa informazione ci permette di capire come le diverse aree del cervello comunicano o si influenzano a vicenda al di là delle singole attività cellulari. Ad esempio usando questa tecnica abbiamo capito che molti processi cognitivi sono distribuiti e dipendono dall’associazione di informazioni tra molti sotto processi piuttosto che dall’attività isolata di una singola area. Inoltre le immagini ottenute con questa tecnica sono incredibilmente affascinanti. Un’immagine di questo tipo è stata addirittura usata come copertina per l’album “The 2nd Law” dei Muse.

Ricostruzione della direzione degli assoni, vista laterale da sinistra

Ciò che queste tecniche ci permettono di ottenere è strabiliante, e la ricerca in questo campo è in costante evoluzione. Aspettiamoci presto altre incredibili e nuove immagini di uno degli organi a oggi più misterioso: il nostro cervello.

 

Immagine di copertina: magnetic resonance image tablet stock photo from Shutterstock/create jobs 51

Immagine fMRI: by G.KONSTANTINA, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Immagine DWI: by jgmarcelino from Newcastle upon Tyne, UK, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

 

Per approfondire

https://www.coursera.org/learn/mri-fundamentals

Mori, S., & Zhang, J. (2006). Principles of diffusion tensor imaging and its applications to basic neuroscience research. Neuron51(5), 527-539.

https://www.youtube.com/watch?v=Ok9ILIYzmaY 

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