La scoperta dei virus come agenti patogeni si deve agli sforzi per curare una malattia delle piante: vediamo come i vari ricercatori pervennero, passo dopo passo, a stabilire che si trattava di un microrganismo mai osservato né ipotizzato fino alla fine dell’Ottocento.

La virologia è un settore della microbiologia relativamente giovane; i primi studi sulle vaccinazioni a opera di Edward Jenner e Louis Pasteur, tra il Settecento e l’Ottocento, avvennero senza che i ricercatori avessero le idee chiare sulla natura degli agenti patogeni che causavano il vaiolo, la rabbia o altre malattie per le quali non si riusciva a identificare un microrganismo responsabile. Oggi sappiamo che i virus sono in media un centinaio di volte più piccoli dei batteri e quindi erano impossibili da osservare con i microscopi di allora. 

La scoperta dell’esistenza dei virus alla fine dell’Ottocento si deve soprattutto alle ricerche condotte per porre rimedio a una pestilenza che stava compromettendo le coltivazioni del tabacco in Olanda e Bessarabia (regione che comprende le attuali Ucraina del Sud e Moldavia): la malattia del mosaico del tabacco. Questa malattia si presentava con macchie giallastre che si alternavano alle aree verdi formando una specie di mosaico, da cui il nome.

Foglia della pianta del tabacco infettata con TMV

Il primo a suggerire che si trattasse di una malattia infettiva fu, nel 1886, il ricercatore tedesco Adolf Mayer, che dimostrò che si trattava di una malattia infettiva applicando i postulati di Koch, quattro criteri generali per stabilire se una patologia è dovuta all’azione di un microrganismo; in particolare Mayer mostrò che era possibile riprodurre la malattia iniettando in piante sane il succo estratto da piante malate. Tuttavia, non riuscì a individuare nessun microrganismo col microscopio ottico; un fungo sarebbe stato troppo grosso per passare inosservato, per cui dedusse che doveva trattarsi di un batterio molto più piccolo di quelli noti.  

Il russo Dimitri Ivanovski portò avanti gli esperimenti di Mayer facendo passare la linfa estratta dalle piante infette attraverso filtri alla porcellana, molto fini, che avrebbero dovuto eliminare tutti i batteri noti; le piante inoculate con questa linfa contrassero comunque il morbo, a dimostrazione, secondo Ivanovski, che doveva trattarsi di una tossina o di un batterio particolarmente minuscolo. 

Pochi anni più tardi, il batteriologo olandese Martinus Beijerinck usò come filtro l’agar, una sostanza gelatinosa che immobilizza i batteri. Passando il filtrato di pianta in pianta, osservò che la carica infettiva non diminuiva e che quindi non poteva trattarsi di un batterio e nemmeno di una tossina: questo perché il filtrato, pianta dopo pianta, avrebbe dovuto andare incontro a sempre maggiori diluizioni. Dopo l’ennesima diluizione, una tossina sarebbe diventata inefficace; doveva quindi trattarsi di un’entità in grado di moltiplicarsi all’interno dell’ospite. Nel 1898 concluse che la causa del mosaico del tabacco doveva essere un nuovo agente patogeno che chiamò inizialmente contagium vivum fluidum, essendo convinto che si trattasse di una forma vitale liquida. In seguito venne utilizzato il termine virus, parola latina per “veleno”.

Le prime immagini

Nel 1901 vennero identificati i virus della febbre gialla e della rabbia; la virologia aveva fatto il suo ingresso nella medicina come settore specialistico. La natura particellare anziché fluida dei virus fu però stabilita con certezza da Wendell Stanley solo nel 1935, dopo l’invenzione del microscopio elettronico, osservando proprio i virus del mosaico del tabacco; la scoperta gli valse il Premio Nobel per la Chimica. In quell’occasione fu possibile stabilire che i virus erano costituiti principalmente da una parte proteica, mentre in seguito emerse anche la presenza di una componente di acidi nucleici (DNA o RNA). 

Sempre grazie a questo virus, indicato con la sigla TMV (Tobacco Mosaic Virus), si deve la scoperta negli anni Cinquanta del meccanismo d’infezione virale. La struttura proteica (capside), che racchiude e protegge il materiale genetico, contiene delle particolari proteine che si legano a dei recettori presenti sulla cellula ospite, determinando il tipo di cellule suscettibili all’infezione. Una volta che il virus penetra nella cellula, ne sfrutta l’apparato metabolico per riprodursi. Questo appunto perché, rispetto ad altri microrganismi, i virus sono molto piccoli e il loro materiale genetico contiene generalmente molte meno informazioni di un batterio, un fungo o un protozoo. 

Si trattò di un momento di svolta per la ricerca, per quanto riguarda sia la diagnosi delle malattie virali, sia della ricerca di metodi per contrastarle. Oggi, dal punto di vista fitopatologico, il virus del mosaico del tabacco è stato affrontato selezionando varietà coltivabili resistenti, ma resta ancora un importante strumento per la ricerca virologica.