La lobotomia evoca spesso l’immagine di una pratica medica brutale e disumana. La fiction cinematografica la dipinge come un’operazione dagli esiti devastanti e irreversibili in film come “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, “Shutter Island”, “La vera storia di Jack lo Squartatore” e “ESP – Fenomeni Paranormali”. Ma quanto c’è di vero? La risposta breve è: non tutto, ma abbastanza.

La nascita della lobotomia come trattamento psichiatrico risale agli inizi del ventesimo secolo, in risposta a una crisi della psichiatria. La lobotomia si colloca nel contesto di una serie di altri trattamenti drastici e invasivi (le “terapie d’urto”), tra cui la terapia da shock insulinico (che prevedeva l’induzione del coma tramite iniezioni di dosi crescenti di insulina), l’elettroshock, l’induzione di febbre alta (piretoterapia) e la sedazione profonda e prolungata.

Ciascuna di queste alternative terapeutiche presentava effetti collaterali considerevoli e il rischio di morte o danni cerebrali permanenti era piuttosto alto, ma mitigavano i sintomi più violenti per qualche tempo. Per questo inizialmente furono accolte con favore negli ospedali psichiatrici, che stavano assistendo al ricovero di un numero crescente di pazienti, perlopiù indigenti, per i quali non era disponibile alcuna terapia e che erano quindi destinati a passare il resto della propria vita in un ambiente degradante senza speranza di miglioramento, spesso alla mercé dei maltrattamenti da parte del personale.

Vista mediana della corteccia prefrontale (area in rosso). Immagine generata dal Database Center for Life Science (DBCLS) tramite BodyParts3D, Licenza CC BY-SA 2.1 jp

La lobotomia è un tipo particolare di psicochirurgia (neurochirurgia orientata al trattamento di malattie psichiatriche). Si basa su una concezione modulare del cervello, ossia sull’idea che a ogni area cerebrale corrisponda una funzione precisa. Storicamente, è stata effettuata tramite procedure diverse, ma l’obiettivo rimaneva quello di asportare o recidere la maggior parte delle connessioni alla corteccia prefrontale, che oggi sappiamo essere implicata in numerose funzioni mentali superiori (pianificazione di decisioni, espressione della personalità, comportamento sociale e altre funzioni cognitive complesse). Psichiatri e neurologi dell’epoca erano convinti che così facendo sarebbe stato possibile mitigare o curare gravi disturbi dell’umore o della personalità, come il disturbo bipolare, la schizofrenia, l’ansia patologica e il disturbo depressivo maggiore.

Le prime lobotomie, dette leucotomie, furono eseguite sotto la supervisione del neurologo portoghese António Egas Moniz, nel 1935 (il nome leucotomia deriva dal greco “leukos”, bianco, poiché come spiegato più avanti si andava a recidere la materia bianca). Moniz in particolare era convinto che nelle persone affette dai disturbi sopra elencati i percorsi neurali andassero a formare dei circuiti abnormi dando vita a idee persistenti, ossessioni e deliri, e che quindi l’unica soluzione, per quanto invasiva, fosse rimuovere queste connessioni, e lasciare che in seguito il cervello si riadattasse alla nuova configurazione.

La sua procedura consisteva nel praticare un foro nella parte laterale del cranio e iniettare alcol etilico puro nella porzione di materia bianca immediatamente sottostante alla corteccia prefrontale. La materia bianca è costituita da quelle parti dei neuroni cerebrali, dette assoni e chiamate comunemente “fibre nervose”, che conducono gli impulsi elettrici dal nucleo del neurone alle sue terminazioni. L’alcol disgregava dunque i collegamenti tra l’area prefrontale del cervello e il talamo, che veniva considerato il centro di associazione tra aree cerebrali diverse. In seguito, per rendere gli interventi più efficaci, fu introdotto l’uso di uno strumento detto leucotomo, una sorta di stiletto da cui era possibile far uscire lateralmente una piccola lama in grado di sezionare il tessuto nervoso.

Un leucotomo degli anni Quaranta. Immagine del Bonkers Institute for Nearly Genuine Research, licenza CC BY 3.0

Moniz era impaziente di pubblicare i risultati, e i controlli post-operatori furono brevi (in alcuni casi di una settimana appena). Nonostante l’iniziale perplessità della comunità medica, il fatto che Moniz avesse dichiarato il successo della procedura in 14 casi su 20 (con 6 casi giudicati invariati) spinse numerosi medici ad adottare la procedura in via sperimentale in diversi paesi. L’Italia fu tra i primi ad aderire con un certo entusiasmo, insieme al Regno Unito, ai paesi scandinavi e soprattutto agli Stati Uniti.

La cattiva fama della lobotomia deriva principalmente dal suo adattamento da parte dei neuropsichiatri Walter Freeman e James Watts che, desiderosi di rendere l’intervento più semplice, rapido ed economico, in modo da poterlo eseguire anche nelle cliniche psichiatriche (che non disponevano di sale operatorie) idearono il metodo della lobotomia transorbitale. Uno strumento detto orbitoclasto (in sostanza, un sofisticato rompighiaccio) veniva inserito al di sotto delle palpebre nella cavità orbitale. Un martelletto veniva usato per forare il sottile strato osseo penetrando per circa 5-7 cm nel lobo frontale. La punta dell’orbitoclasto veniva poi mossa lateralmente in modo da recidere la materia bianca. Freeman suggerì che, in mancanza di anestesia, si poteva usare l’elettroshock per sedare il paziente, cosa che egli fece regolarmente.

Orbitoclasti fotografati al Central States Hospital di Milledgeville, in Georgia. Immagine di Shelka04 da Wikipedia in inglese, licenza CC BY 3.0

Con questa procedura rapidissima (si concludeva in pochi minuti) e in mancanza di valide alternative terapeutiche, il numero di lobotomie negli Stati Uniti conobbe una crescita vertiginosa: da poche centinaia nei primi anni ’40 fino a decine di migliaia alla fine della decennio. Lo stesso Freeman eseguì oltre 2900 lobotomie. Nel 1949, Moniz ricevette il premio Nobel per aver evidenziato le proprietà terapeutiche della procedura (un’assegnazione che è tuttora oggetto di feroci critiche). Le lobotomie transorbitali restarono in voga per tutti gli anni ’50 e per i primi anni ‘60. Un esempio di intervento è illustrato in questo video (ATTENZIONE: le immagini potrebbero urtare la sensibilità dei lettori).

Molti di questi interventi furono eseguiti superficialmente e senza una reale necessità: ne fecero le spese bambini con problemi di comportamento, donne affette da “isteria” o persone (come gli omosessuali o gli appartenenti ad altre minoranze) la cui condotta morale si giudicava riprovevole. La mortalità si attestava sul 5%, ma gli effetti collaterali erano inquietanti. Generalmente i pazienti subivano un appiattimento della personalità, perdevano spontaneità e reattività, diventavano anaffettivi e meno consapevoli di sé, quando non catatonici, letargici e del tutto inerti. Contrariamente a quanto affermato inizialmente da Moniz, le capacità intellettive risultavano spesso compromesse. Di certo, questo rendeva più facile gestire i pazienti.

Se l’operazione non aveva successo, la regressione era drammatica. Successe a Rosemary Kennedy, sorella di John Fitzgerald, sottoposta a una lobotomia transorbitale per correggere il suo comportamento ribelle e i suoi sbalzi d’umore, che dopo l’intervento perse qualunque autosufficienza e fu reclusa in un istituto. L’operazione, inoltre, esponeva i pazienti al rischio di emorragie cerebrali e infezioni, come nel caso del violinista polacco Josef Hassid, schizofrenico, che morì di meningite a 26 anni in seguito alla lobotomia.

Le critiche alla procedura si fecero sentire fin dalla metà degli anni ’40 e in alcuni paesi, come l’Unione Sovietica, fu bandita quasi immediatamente. Come spesso succede, la narrazione sulla lobotomia è molto drammatizzata; non tutti i soggetti lobotomizzati sviluppavano effetti collaterali invalidanti, e vi sono stati anche alcuni casi in cui l’operazione aveva benefici tali da permettere al paziente di vivere una vita normale e di lavorare. Tra questi vi è la prima paziente operata tramite la procedura transorbitale, Sallie Ellen Ionesco. In molti casi, l’unica alternativa era restare rinchiusi a vita negli ospedali psichiatrici.

Secondo il Dizionario di Psichiatria di Hinsie & Campbell, nel 1970 si stimava che l’operazione avesse avuto successo nel 35% circa dei casi. Tuttavia, considerati gli scarsi controlli post-operatori effettuati all’epoca, nonché la definizione ambigua di “successo” della terapia (inteso semplicemente come maggior docilità dei pazienti), vi è il sospetto che si trattasse di stime generose. Comunque, con l’introduzione dei medicinali antipsicotici e antidepressivi a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la lobotomia (come il resto della psicochirurgia) perse terreno e fu quasi completamente abbandonata nel corso degli anni Settanta.

E oggi? La lobotomia così come l’abbiamo descritta è stata vietata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, appunto perché si ottengono risultati migliori (e minori effetti collaterali) con i farmaci come la clorpromazina. L’unica forma di lobotomia tuttora praticata è un intervento molto più mirato, eseguito su pazienti con epilessia del lobo frontale anteriore che non rispondono ai farmaci anticonvulsivanti, e viene detta leucotomia temporale anteriore. Nulla a che vedere con la sbrigativa procedura transorbitale.

 


Fonti:
Hernish J. Acharya, “The Rise and Fall of the Frontal Lobotomy”, Proceedings of the 13th Annual History of Medicine Days, University Of Calgary, 2004
W.V. Swayze, “Frontal leukotomy and related psychosurgical procedures in the era before antipsychotics (1935-1954): a historical overview”, American Journal of Psychiatry, 1995 (https://doi.org/10.1176/ajp.152.4.505)
L.E. Hinsie, R.J. Campbell, “Psychiatric dictionary” 4° ed, 1970, Oxford University Press, p. 438

Per saperne di più:
http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1076/jhin.8.1.60.1766
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1949/moniz-article.html
https://www.wired.com/2010/11/1112first-lobotomy/

Un video sul dottor Walter Freeman (“Il lobotomista”):
https://www.youtube.com/watch?v=HQLIIu4xSyk

Immagine di copertina: Walter Freeman e James Watts prima di un intervento di lobotomia. Foto di Harris Ewing – Saturday Evening Post, 24 maggio 1941