Quando si fa ricerca di base, una delle domande più ostiche a cui rispondere è “ok, ma a cosa serve?”: a volte le ricadute sono immediate e possono cambiare, letteralmente, il mondo come lo conosciamo.
La ricerca di base ha ricadute notevoli sulla società, ma spesso indirette. Tra gli esempi più eclatanti di questo importante e profondo legame ci sono gli algoritmi di miglioramento delle immagini implementati per il telescopio spaziale Hubble, che hanno consentito un enorme avanzamento nell’identificazione di anomalie nelle immagini dagnostiche del seno. In questo caso, l’anelito degli scienziati a ottenere immagini più nitide e dettagliate degli anelli di Saturno ha avuto come effetto collaterale la diagnosi precoce di un numero imprecisato di problematiche di salute, potenzialmente anche salvando un numero importante di vite. Sotto questa punta dell’iceberg, innumerevoli altre occasioni in cui la distanza tra lo scienziato e l’applicazione pratica sembra incolmabile, e non lo è.
Un altro esempio che mi piace particolarmente è la teoria della relatività, che sta alla base del funzionamento del GPS. Può sembrare peculiare, ma proprio l’assunto che la velocità della luce sia costante è alla base del funzionamento del nostro navigatore, senza il quale potremmo perderci anche dal salotto al bagno. Di fatto, la costellazione di satelliti che ci consentono di andare da un posto all’altro senza perderci è formata da un certo numero di orologi precisissimi, che ci dicono che ora è dove stanno, consentendoci di posizionarci con precisione fantastica. E di solito anche di trovare un percorso intelligente, a patto che esista.
Molto spesso inoltre le scoperte che hanno un impatto più potente sulla società arrivano per caso, o addirittura per quella che inizialmente era una incomprensione. È il caso di un avanzamento tecnico scientifico di primissimo ordine che viene descritto in un preprint di cui la redazione di Scientificast è venuta in possesso in anticipo rispetto alla pubblicazione, e che (opportunamente censurato) possiamo condividervi qui.

Il protagonista indiscusso della nostra storia
Questa è la storia di un raccordo il cui nome, male interpretato (o meglio sentito ripetere come un mantra in una conversazione poco intellegibile) è diventato un cocktail. Lo SVAGELOC CON L’OLIVETTA, unico, inimitabile, insensato e buonissimo. Ma da bersi responsabilmente. (il raccordo si chiama Swagelok e la ditta che lo produce è ignara di tutto).
Lo Svageloc con l’olivetta nasce come long drink, twist del Dirty Martini (che ricordiamo essere a sua volta una derivazione del Martini Cocktail, differendo dal primo, composto di gin e vermouth dry, per la presenza di vodka al posto del gin e l’aggiunta di poca salamoia di olive), in cui abbiamo voluto fortemente mantenere il gin. Per compensare la speziatura del distillato, abbiamo pensato di ammorbidire la parte aromatica, anche perché volevamo a tutti i costi dare rilevanza all’olivetta, mantenendo la “sporcatura” con la salamoia. Per questo, al posto del vermouth dry abbiamo introdotto il Basanotto, liquore ligure a base di basilico, salvia e chinotto, invero piuttosto dolce. Per completare il long drink e portare la gradazione alcolica al grado voluto, dopo lunga meditazione abbiamo pensato alla gazzosa, ottenendo così la seguente ricetta:
in un tumbler alto, inserire ghiaccio, un’oncia di gin (preferire un London Dry), mezza oncia di Basanotto, due barspoon di salamoia di olive e girare, per raffreddare e diluire leggermente; completare con due once e mezza di gazzosa e decorare con un’oliva verde su uno stuzzicadenti.
La ricetta è molto semplice, a richiesta possiamo far pervenire (solo a referenziatissimi) il preprint, già impaginato sul template di Nature. Scientificast raccomanda un consumo di alcol moderato e responsabile, quindi non prendete questa straordinaria, primaprilesca innovazione della scienza come un invito a sordidi baccanali.
Per saperne di più:
non volete saperne davvero di più, dai, ce n’è d’avanzo così
Immagine di copertina: CC0